In missione guarda lontano e vicino: la difficile situazione della Repubblica Centrafricana vista con gli occhi di fr. Antonio, medico missionario, e la non facile realtà dei nostri Centri missionari in questo tempo di pandemia, raccontata da fr. Matteo, segretario delle missioni.

a cura di Saverio Orselli

 Non cada nel vuoto la pace

I motivi dell’instabilità centrafricana

 di Antonio Triani
frate cappuccino, medico missionario nella Repubblica Centrafricana

 Centrafrica senza pace

La cronica instabilità della Repubblica Centrafricana, cui è seguito il conflitto iniziato nel 2013 e non ancora risolto, è conosciuta un po’ da tutti.

Attualmente il paese, occupato per oltre due terzi da gruppi armati irregolari, si trova sotto tutela delle forze internazionali ONU, presenti con circa 12.000 Caschi Blu.
La visita di papa Francesco a Bangui nel novembre 2015, per aprire la porta della cattedrale ed inaugurare l’Anno Santo del Giubileo della Misericordia, ha fatto cessare gli scontri nella capitale, ma in troppe regioni la pace è ancora lontana. Molti villaggi sono stati distrutti ed ampi territori occupati da milizie musulmane di etnia Peul, che depredano risorse ed assicurano nuovi pascoli al loro bestiame.
Recentemente, in occasione delle elezioni presidenziali tenutesi il 27 dicembre scorso, una nuova violenta offensiva di alcuni gruppi ribelli mirava a rovesciare il potere costituito. Decine, se non centinaia, i morti e più numerosi i feriti. Il governo ha decretato lo stato d’urgenza per sei mesi. Perché perdura una tale situazione? Le cause sono numerose. Dopo l’indipendenza (nel 1958) ci sono stati almeno sette colpi di stato con conseguente cultura della violenza ed instabilità politica, quasi una condizione di ribellione permanente, alimentata da cattivo governo. Si è assistito talora ad un accaparramento del potere a profitto di uno solo, assieme ai familiari e alla propria etnia. Inoltre le forze di sicurezza e di difesa non hanno preparazione adeguata per la difesa del paese e della popolazione. Significativo il fatto che, dopo gli ultimi avvenimenti, un migliaio di militari governativi (circa la decima parte della totalità) sia stato radiato per diserzione e disobbedienza. A tale mancanza di un vero esercito nazionale è seguita la perdita del controllo sull’insieme del territorio con la proliferazione di bande armate irregolari, spesso provenienti dalle nazioni limitrofe. Infatti la Repubblica Centrafricana si trova in una regione di grande instabilità, confinando con paesi turbolenti ed interessati come il Ciad, il Sudan, il Sud Sudan, la Repubblica Democratica del Congo, il Congo ed il Camerun.

 Confini come pori

In considerazione della porosità delle frontiere, forze ribelli estere (per lo più musulmani, non estremisti) e mercenari si spostano in zone di minore resistenza, soprattutto per depredare ed automantersi. Già all’epoca coloniale la Repubblica Centrafricana era considerata la cenerentola dell’impero francese. Inoltre esiste una maledizione delle risorse: le materie prime come il legno, l’oro, i diamanti, l’uranio ed il petrolio (ancora da estrarre) abbondano, senza che i residenti ne traggano profitto. Così entrano in gioco potenze straniere (basti citare Francia, Cina e Russia) insieme a società private per uno sfruttamento illegale. Alla lunga tradizione di legittimità acquisita con le armi è associata l’impunità dei responsabili. Più aumenta la minaccia rappresentata dai gruppi armati ribelli, più il loro potere di negoziare si accresce. I loro capi, spesso criminali riconosciuti, vengono interpellati quali interlocutori politici, per evitare ulteriori violenze. Nel governo diversi di loro avevano ottenuto incarichi importanti in vari ministeri. Nonostante gli aiuti e l’appoggio internazionale, il Centrafrica, durante questa lunga crisi, non ha imparato molto.
Manca una classe politica formata in primo luogo alla tutela del bene comune. I vescovi hanno denunciato ripetutamente ingiustizie e soprusi, ricevendo solo promesse non mantenute. Nel Messaggio di gennaio, rivolto al paese dalla capitale Bangui, l’Assemblea Episcopale sottolinea “l’esasperazione” della gente, la cui miseria è indicibile: costretta a fuggire per i saccheggi ma anche a causa di funzionari e dirigenti che perseguono soprattutto il proprio tornaconto. A migliaia i rifugiati che vivono in luoghi insicuri e in “condizioni disumane”.

 “Zo kwe zo”

Nella concessione della nostra Missione, a Bouar, abbiamo ospitato, per quasi due mesi, circa tremila persone, fuggite dalle proprie abitazioni, dopo violenti scontri a fuoco, iniziati a fine dicembre. Tutti gli ambienti erano occupati: stanze, sale di riunione, corridoi, sottoscala, chiesa. La maggior parte dormiva all’aperto. In questo quadro generale piuttosto cupo la Chiesa soffre, ma nell’insieme cresce e gode la stima della popolazione ponendo le basi di una società nuova, dove ogni persona abbia il suo posto e la sua dignità. Il primo presidente, Barthélemy Boganda, che era un sacerdote, affermava: “Zo kwe zo” (ogni uomo è un uomo). Sono stati celebrati i 125 anni di evangelizzazione con molteplici iniziative. I cristiani, le vocazioni religiose e sacerdotali sono in aumento.
L’Africa è ricca di risorse umane e materiali. Alcune nazioni, uscite da lunghi anni di conflitto, si incamminano progressivamente verso la prosperità. Qui la gente è stanca di violenze e desidera solo la pace. Il dialogo e gli incontri tra varie confessioni religiose incoraggiano e promuovono soluzioni per ristabilire l’ordine ed il ritorno alla normalità. Vi sono progetti di reintegrazione al fine di restituire ad ex combattenti lo statuto di civili, aiutandoli a ottenere un impiego con programmi di formazione professionale per reinserirsi nella comunità. Certo i vescovi ammoniscono che la ricostruzione dello stato sarà un lavoro “lungo, bisognoso di determinazione, pazienza e partecipazione di tutti”.
Un ruolo importante in questo lavoro lo ricoprono le presenze missionarie, anche se nell’insieme sono diminuite rispetto a vent’anni fa, per ragioni anagrafiche. Infatti i rientri per causa di malattia o età avanzata sono stati numerosi. Il recente ritorno alla violenza non ha determinato defezioni: è triste dirlo, ma in parte siamo un po’ abituati. Si è solo ridotto il campo di azione limitando attività e spostamenti.
A Bouar dove vivo, come nella capitale Bangui, operano tuttora diversi Istituti e Congregazioni religiose con membri europei e non mancano i missionari laici. Globalmente però, considerando tutto il paese, la Chiesa cresce con membri locali e questo è fondamentale perché l’invito dei vescovi non cada nel vuoto.