Sempre sognando un tè caldo, profumato, con abbracci, pacche sulle spalle e l’immancabile brazadela, eccoci qua. Riflettendo su questo argomento che sembra così freddo, così impersonale, anzi, sovrapersonale, mi è venuto in mente Giuseppe, uno dei tanti immigrati al Nord in cerca di lavoro. Lavoro stagionale, saltuario, cena alla mensa, notte in dormitorio e tanti problemi.

a cura della Caritas Diocesana di Bologna

 Come il Messico senza nuvole: il dono!

L’economia dell’essenziale è visibile ai piccoli

IL TÈ DELLE BUONE NOTIZIE 

 Aiutarne uno

Era il secolo scorso, potremmo proprio dire un secolo fa, anche dal punto di vista dell’economia.

Giuseppe fu uno dei primi distributori di Piazza Grande, il primo giornale di strada in Italia, dicembre 1993. Era una novità e fu un boom. Un giorno, entrando in ufficio, mi mise sulla scrivania 300.000 lire dicendo semplicemente «Voglio adottare un bambino a distanza per sei mesi». Lo stupore fu grande: al Centro di Ascolto le persone vengono, se mai, per chiedere soldi, mai per portarne! «È un pensiero molto bello, Giuseppe, ma questi soldini farebbero comodo anche a lei», risposi. «Ho visto che ci sono tanti bambini che stanno peggio di me, voglio aiutarne almeno uno per sei mesi». Dopo sei mesi mi portò altre 300.000 lire. Poi la sua vita prese una piega ancora più complicata e non lo vidi più, di certo, però, non l’ho dimenticato.
Ma ecco che iniziano a piovere i contributi degli amici del Tè, il primo è Diego e c’è una nota di amarezza nelle sue parole: «Per tanti anni ho lavorato nel commercio ortofrutticolo per cui, quando ho visto l’annuncio di un supermercato che cercava un responsabile per quel settore mi sono detto: è mio. Al colloquio, invece, mi sono sentito rispondere che ero troppo qualificato… o, forse, troppo vecchio. Per chi assume giovani ci sono un sacco di agevolazioni e così il valore della competenza sbiadisce di fronte al denaro e io devo continuare, solo per sopravvivere, a rivolgermi alla Caritas».
«Anch’io», si allaccia Maria Rosaria, «con il Reddito di Cittadinanza avevo cominciato a respirare, a sentirmi più tranquilla, ma adesso ho il terrore che Draghi lo tolga, e io, con la sola invalidità, 300 euro al mese, faccio la fame!». Tutti conosciamo Maria Rosaria e il suo grido ci zittisce. È Rita a riprendere il filo: «Verissimo che il denaro non fa la felicità, però se non ce l’hai son dolori, e anche l’accumulo può essere giustificato quando ci sono dei figli il cui futuro è incerto. Penso che sia giusto anche spenderlo per concedersi momenti di gioia e serenità, senza dimenticare chi è nel bisogno».

 La minaccia della muffa

«Non mi è chiaro che rapporto ho con il denaro», confessa Carla quasi parlando a se stessa, «forse perché vengo da una famiglia dove cercare di risparmiarlo per necessità future era sopravvivere, forse perché poi ne ho avuto e non so se l’ho usato al meglio… Altra cosa è l’economia del tempo: da un lato ammiro chi sa dedicare il proprio tempo alla riflessione, all’introspezione, ma poi riaffiora la mia origine padana, fatta di terra e fango: vangare zappare dissodare seminare e raccogliere, tutto veloce, chi ha tempo non aspetti tempo!». «Già, perché il tempo è denaro», ammicca Serena, «me lo sentivo ripetere spesso da bambina, ed era una sollecitazione a essere meno lenta, un modo per farmi sentire inadeguata. Più tardi sono arrivata a capire che il denaro è come il tempo: un bene, un’energia preziosa, e ad entrambi ho associato un significato positivo in quanto da spendere non per me soltanto; e non ho dubbi sul fatto che quel talento non lo si può infilare sotto terra, e per talento intendo non solo quanto abbiamo, ma quanto siamo. Se non ci diamo, che sia denaro, tempo, esperienza, dialogo, tutto ciò diventa muffa».
Ma a spazzare via il rischio della muffa ci pensa Azadeh, con una ventata di culture lontane: «Io, di mio, non sarei fissata sui soldi, ci sono altre cose che possono darmi allegria, ma è vero che, avendo Benjamin, ho una responsabilità nei suoi confronti. Se fossi sola vorrei vivere come un Sufi; la regola base del Sufismo dice: tu sei ricco quando riesci ad arrivare alla terra, cioè quando non possiedi nulla. E invece sono sempre stata costretta a fare il contrario, il mondo è così, perché non possiamo ignorare la responsabilità verso chi dipende da noi».
«Economia = frenesia», sentenzia Marco, «ma guardate le persone come si muovono: corrono quasi ipnotizzate, sempre in ritardo, come se il tempo dovesse mancare da un momento all’altro, cellulari che squillano, whatsapp, social… oh, ma dove state andando? Nessuno ti vede, nessuno ti ascolta, ognuno chiuso in se stesso con quel fare da me ne frego». Poi la voce si stempera in un ricordo: «Ero in Messico, sul mare, a godermi le ferie; nel bungalow vicino al mio una coppia di ragazzi, felici e inconsapevoli della durezza di quel Paese, e, in poche ore, tutta quella felicità svanita perché qualcuno, entrando in casa, li aveva derubati di tutto. Sgomenti, disperati, non sapevano a chi rivolgersi. Li ho accompagnati al Consolato Italiano, ho lasciato loro 1000 euro raccomandando che facessero tesoro di quell’esperienza. Non è sempre vero che nessuno fa niente per niente. Appassionato di arte, facevo i mercatini di antiquariato nelle piazze, poi, d’inverno, partivo per altri Paesi, niente accumulo, con il rischio di diventare un uccello rapace, ma viaggiare, scoprire altri popoli, altre culture, vedere, conoscere, crescere…».

 Devono crescere tutti

«Crescere, ecco una parola che mi piace», si aggancia Daniele, «ma insieme, come dice bene il termine economia circolare, chi ha denari è bene che li investa per creare lavoro e benessere. Michael Jordan, cestista americano, donò un milione di dollari per un ospedale, la sensibilità e la generosità di Ayrton Senna erano famose, la cantante Madonna sostiene molte adozioni a distanza, anche questi sono modi di investire». E qui l’orizzonte si allarga: «Belli gli esempi di Daniele», approva Maurizio, «aggiungo che anche gli Stati più ricchi devono sentire maggiore responsabilità verso quelli più poveri, perché tutti abbiamo diritto a una vita dignitosa. E non dimentichiamo che molti Stati ricchi lo sono diventati sulla pelle di altri popoli che continuiamo a definire sottosviluppati! Altrettanto dovrebbe essere l’impegno verso la natura, da parte di tutti, ricchi e poveri».
«Sono proprio d’accordo con Maurizio», interviene Giuseppe, «e voglio aggiungere che i grandi flussi migratori prendono origine dalle problematiche di territori con scarsità di risorse, spesso precedentemente rapinate o inquinate, o dilaniati da conflitti in cui c’entra sempre anche il denaro. La crisi economica e sociale conseguenza di questa pandemia dovrebbe farci riflettere, dovrebbe orientare i Governi verso politiche che non siano più di sfruttamento di pochi a danno di tanti, ma frutto di un pensiero plurale, inclusivo e multiculturale». «Ecco la pandemia appunto», scatta Gabriele, «io ogni due settimane usufruisco della distribuzione alimentare del Banco di Solidarietà, e, recentemente, fra gli utenti, ho riconosciuto, con raccapriccio, il gestore di una ferramenta vicina a casa mia, a riprova che mala tempora currunt. Appassionato di musica, non ho mai visto tanta squallida desolazione nei negozi dedicati, mentre, tanto per dire, non fanno che uscire nuovi gingilli tecnologici digitali, con prezzi sempre più accessibili, ma con una obsolescenza programmata sempre più ravvicinata, alla faccia del tanto sbandierato risparmio! Il sonno della ragione produce mostri, si sa».
Dopo l’impeto di Gabriele la voce di Leone sembra ancora più sommessa: «Io penso che i soldi servano per vivere e non che si viva per i soldi, ma c’è tanta gente ossessionata e, nel mondo del disagio, ancora di più, perché non si è padroni neanche di quel poco che si riesce a conquistare. Ricordo, in un contesto di Piano Freddo, una persona che, mentre tentavo di prendere un caffè alla macchinetta che non mi accettava i 20 centesimi, quando finalmente sono andati giù, sosteneva che fossero i suoi e stavamo per venire alle mani. Salvo poi mostrare, dal portafoglio, due carte da 50 euro. E se io fossi stato uno di quei tipi dal coltello facile? Per cosa? Per qualche centesimo in più». È Denise a chiudere il nostro Tè: «Un giorno, quando ero piccola, vidi mio zio donare quasi tutto il suo guardaroba a un senza tetto: allora non ne capii il senso, ma ora che lo zio non c’è più, fra i tanti oggetti che mi ha regalato, c’è questo ricordo immateriale che è per me un grande esempio. Anche donando ciò che ci appartiene e non usiamo più facciamo economia, perché economia non è solo denaro, è anche dono: il nostro tempo, l’esperienza, la conoscenza, la presenza. Per me, però, la cosa più difficile da donare è il perdono, non c’è denaro che possa comprare il perdono».