«L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro» (art. 1 della Costituzione italiana). Senza lavoro non c’è cittadinanza né dignità. «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato» (art. 27). In carcere, l’economia è primaria e di sussistenza. Lontana dall’assicurare dignità e favorire il reinserimento nella società.

a cura de la Redazione di “Ne vale la pena

 Un mondo a parte

L’antieconomia che inghiottisce e non produce

DIETRO LE SBARRE

 Se tutti i detenuti

 Se tutti i detenuti avessero un lavoro il carcere costerebbe meno allo Stato*
Mi privano della libertà personale e devo pagare la quota di mantenimento?

La domanda si ripropone ogni volta che chi ha la fortuna di lavorare in carcere riceve la busta paga, da cui vede detratte le spese di vitto e alloggio.
I circa 60.000 detenuti, distribuiti sul territorio nazionale in 190 istituti di pena, costano allo Stato 4.000 euro al mese a testa, per una spesa complessiva di 2 miliardi e 900 milioni di euro. I detenuti definitivi, circa i due terzi del totale, devono pagare sia le spese di giustizia che quelle di mantenimento (3.60 euro al giorno), ma solo una percentuale irrisoria, intorno al 2%, salda il conto; gli altri, non avendo disponibilità, non saldano il debito e, una volta finita la pena, chiedono la remissione del debito perché nullatenenti.

L’ordinamento penitenziario individua nel lavoro uno dei pilastri del processo rieducativo, stabilendo che le attività svolte devono essere assicurate, incentivate e remunerate, anche attraverso percorsi formativi finalizzati al reinserimento nel contesto sociale. La retribuzione, o mercede in gergo carcerario, consente di fare la spesa al sopravvitto, sostenere le famiglie e pagare allo Stato la tanto odiata quota di mantenimento.
Le retribuzioni non sono piene come si potrebbe pensare, ma si attestano, per legge, ai 2/3 dei minimi stabiliti dai contratti collettivi di riferimento. La maggior parte degli incarichi sono a rotazione e, mediamente, un detenuto definitivo, nell’arco di un anno, lavora un giorno su tre, da due a quattro ore, in pratica un mese su quattro.
Le risorse stanziate per il lavoro dei detenuti alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, circa 110 milioni di euro all’anno, sono insufficienti per fare lavorare tutti, e la coperta, quindi, è troppo corta.
È importante ricordare che le attività lavorative interne sono comunque indispensabili per il funzionamento degli istituti; riguardano pulizie, cucina, manutenzione fabbricati, lavanderia, distribuzione vitto e sopravvitto. Le ore necessarie allo svolgimento di queste attività sono sempre le stesse, ma le ore ufficialmente retribuite calano inevitabilmente per la scarsezza di risorse.

* i dati riportati in questo articolo risalgono al gennaio 2020, quindi alla situazione prepandemica (ndr)

Maurizio Bianchi

 

 La responsabilità sociale d’impresa

È veramente così sorprendente che un’impresa decida di localizzare la propria produzione all’interno di un carcere? Certamente nessun imprenditore sarebbe tanto sprovveduto da portare avanti il processo produttivo in determinati contesti, come ad esempio quello carcerario, senza avere almeno una minima possibilità di competere e sopravvivere sul mercato.
È molto più ragionevole pensare, invece, che questo imprenditore voglia esplorare nuovi paradigmi industriali, alternativi a quelli classici, che gli permettano di avere un vantaggio strategico sui propri concorrenti di mercato. Negli ultimi anni molte aziende hanno iniziato a praticare questo “paradigma sociale” alla ricerca di quote di mercato orientate a un consumo responsabile e civile. In linea generale, la responsabilità sociale d’impresa è certamente fonte di costi per l’azienda, a volte anche rilevanti. Tuttavia questi costi possono essere compensati da una serie di benefici tra i quali il più significativo è probabilmente il cosiddetto “voto con il portafoglio”, che trova la propria base teorica nel fatto che una parte di consumatori si dimostra propensa a spendere di più, a patto di comprare prodotti che soddisfino i propri valori sociali ed etico-morali.
È però possibile un’equiparazione tra la produzione equosolidale che si è sviluppata nel terzo mondo e la produzione industriale, localizzata in un istituto penitenziario, che permetta di applicare gli stessi concetti produttivi e lo stesso modello economico? E si possono considerare le persone detenute alla stessa stregua dei soggetti economicamente più marginalizzati nel Sud del mondo?
La lontananza geografica dei produttori del Sud del mondo e la loro marginalità nella società trovano il loro corrispettivo nella lontananza fisica e culturale tra società libera e società carceraria. La società libera considera la società carceraria come un non-luogo da ignorare, così come i piccoli produttori dei paesi in via di sviluppo sono considerati un’umanità che deve restare marginalizzata e nascosta per non disturbare, con i propri bisogni, le classi sociali che detengono il potere economico. Forse però occorre capire se il consumatore più sensibile sul piano dei valori etico-morali sia ugualmente disponibile ad acquistare, a parità di qualità, prodotti di prezzo superiore pur di aiutare il reinserimento sociale delle persone condannate. Tutto ciò non può essere dato per scontato.

Roberto Cavalli

 Le buone pratiche

Per quanto l’universo penitenziario sia un ecosistema a sé stante o, riprendendo il titolo di un libro di Gustaw Herling-Grudziński Un mondo a parte, sarebbe utile se anche in un luogo così “a parte” si cominciassero a mettere in atto tutte quelle buone pratiche che, creando coscienza civile, permettono anche di usare meglio le scarse risorse di cui si dispone. Il sistema penitenziario è una voragine che inghiotte quantità di denaro per inghiottire vite senza produrre restituzione né di denaro né di vite.
Tutto viene consumato per mantenere un distanziamento sociale (ora sì che il termine è adeguato), che si autoalimenta senza soluzione di continuità. Eppure, anche in carcere, piccoli ma significativi passi verso la green economy potrebbero essere fatti.
Per esempio dotando di pannelli fotovoltaici i tetti dei penitenziari, solitamente piatti come la tundra lappone, e così risparmiare sulle spese elettriche per luce e riscaldamento. Oppure, sempre in tema, non tenendo i neon delle celle (oggi delicatamente chiamate stanze di pernottamento) sempre accesi - anche la notte! - che, oltre ad essere un inutile spreco, è anche oggetto di reprimenda europea quale trattamento disumano (la luce sempre accesa è considerata tortura). Per non dire della mancanza della raccolta differenziata che, di fatto, è impossibile da fare se le celle sono abitate da due o più persone e i mq a disposizione sono 12 che, tolti letti, tavolo, sgabelli e armadietti, si riducono a 3!
Ma se questo riguarda i “piani alti”, ci sono pratiche non buone che anche i detenuti adottano come, per esempio, l’estate, quando il consumo d’acqua dovrebbe essere più accorto, lasciano aperti i rubinetti, notte e giorno, per rinfrescare bottiglie d’acqua o bibite. Ma quello che offende il cuore prima ancora che la ragione, in un momento in cui la povertà attanaglia sempre più famiglie, è la quantità di cibo che, cucinato arditamente, ogni giorno viene gettato impietosamente. Sarebbe bello sapere che, raccolto con accortezza, potesse raggiungere il piatto di chi non ha nulla da mettervi dentro.
Esempi di un mondo dove lo spreco di risorse e di vite è quotidianità senza fine. Forse, anche qui, per sperare di rimettere un po’ di ordine nel caos, ci vorrebbe un Drago…

Sergio Ucciero