Giovani cinquantenni cercasi

Il sistema Italia si ammanta di giovinezza ma respinge la gioventù

 di Michele Papi
animatore di pastorale giovanile, vocazionale e missionaria

 Una piccola inchiesta

Il 25 febbraio 2021 è stato pubblicato il quarto rapporto ISTAT sul lavoro (www.istat.it/it/archivio/254007).

La ricerca si concentra sulle conseguenze della pandemia e sull’analisi delle politiche di occupazione adottate per contrastarne gli effetti. Nello studio si nota un calo generalizzato delle ore lavorate e dell’occupazione (-5,2% in un anno, nonostante il blocco dei licenziamenti) dovuti al mancato rinnovo dei contratti a tempo determinato come al mancato inizio di nuovi rapporti. Le fasce di popolazione più penalizzate sono quelle dei giovani, delle donne e dei lavoratori stranieri; in particolare si può parlare di vero disastro dell’occupazione giovanile: tra i 15 e i 34 anni c’è un tasso di occupazione del 39,6% a fronte di una disoccupazione del 19,1% (+2,8%, il doppio del dato generale), mentre il 51,1% degli appartenenti a questa fascia di età non cerca lavoro. I motivi di questa situazione non vanno ricercati solamente nella situazione eccezionale che stiamo vivendo, ma nei problemi strutturali del mondo del lavoro sia dal punto di vista legislativo che di organizzazione delle imprese. Si potrebbe parlare anche di un problema culturale e morale che interessa il nostro sistema: dietro al giovanilismo dei nostri leader si nasconde una mentalità anti-giovanile?

Per andare più a fondo ho voluto porre alcune domande a dei giovani che sono alle prese con le prime esperienze lavorative. Si tratta di ragazze e ragazzi che ho conosciuto nei nostri ambienti cappuccini. Devo premettere che le venti interviste che ho raccolto non costituiscono un campione rappresentativo in quanto i protagonisti provengono tutti da famiglie ben inserite socialmente e sono forniti di un buon livello di istruzione, quindi potenzialmente hanno tutte le carte in regola per vivere con serenità questa fase della vita. Ugualmente le loro risposte ci possono aiutare ad aprire uno spiraglio su come le nuove generazioni vivono questo frangente nel quale, collegate alla ricerca di una occupazione dignitosa e stabile, si affrontano tante altre scelte importanti quali il costituire una famiglia e mettere al mondo figli, il conquistare indipendenza e trovare la propria missione nella vita.

 Alcuni dati emersi

L’età degli intervistati va dai 22 ai 33 anni, solo due di loro non hanno conseguito la laurea, diversi hanno specializzazioni, master o una seconda laurea. Almeno la metà del gruppo ha avuto esperienze di lavoro già negli anni dello studio. Tutti gli intervistati attualmente lavorano, solo pochi però hanno un contratto a tempo indeterminato, gli altri si barcamenano tra contratti di tirocinio/formazione o collaborazioni a partita iva. I settori di impiego sono i più svariati ma c’è una prevalenza del settore tecnico gestionale rispetto a quello umanistico o all’insegnamento che è però ben rappresentato. Pur nella precarietà, nessuno ha dovuto attendere troppo prima di trovare un’occupazione, quasi tutti si ritengono fortunati nel loro ingresso nel mondo del lavoro, stupisce un diffuso divario tra l’indirizzo degli studi e l’effettiva occupazione. Secondo alcuni dei ragazzi questo va attribuito ad una scollatura tra il sistema scolastico e il mondo del lavoro. Tutti denunciano l’inadeguatezza della retribuzione e delle garanzie contrattuali rispetto alle necessità di una vita dignitosa, progettare la costituzione di una famiglia senza avere alle spalle il supporto finanziario e logistico dei genitori appare utopico. Del gruppo fanno parte solo una coppia sposata e un’altra in procinto di sposarsi, nessuno ha ancora figli, tre tra gli intervistati abitano ancora in famiglia ma solo una esigua minoranza provvede autonomamente alle spese di alloggio. Il costo degli studi è stato un vero problema per chi ha alle spalle percorsi di alta specializzazione, non ci sono forme di sussidio adeguate (come prestiti per la formazione) e spesso la selettività degli ingressi è dovuta ad una carenza di risorse più che a criteri di merito. Chi ha una formazione umanistica difficilmente vive di quello (escluso l’insegnamento), sorprendente è però la capacità di reinventarsi in ambiti molto distanti pur di non abbandonare la passione per la ricerca. L’incertezza sul futuro rimane la cifra di riferimento così come la burocrazia il mostro da sconfiggere: ci sono plurispecializzati che, a causa del sistema fiscale, non possono svolgere tutte le mansioni a cui sono abilitati perdendo guadagni, gli albi professionali sono visti come caste che blindano diritti acquisiti piuttosto che tutelare la professionalità in generale. L’ingresso nelle libere professioni avviene attraverso esperienze di tirocinio/apprendistato che in alcuni casi nascondono uno sfruttamento legalizzato: alto carico di lavoro generico e poco formativo, senza riuscire a guadagnare abbastanza per affrancarsi dalla famiglia. I percorsi di studio più brevi sembrano facilitare l’ingresso nel mondo del lavoro, soprattutto se l’interessato ha la capacità di presentarsi in modo appetibile per il mercato.

 Non è un paese per giovani

Una conferma al pensiero espresso in apertura, cioè che il nostro “Non è un paese per giovani” per citare un film di Veronesi del 2017, mi è stata data dal fatto che molti ragazzi parlando del loro ingresso nel mondo del lavoro tirano in ballo la fortuna e le conoscenze più che il curriculum di studi. Più che investire sulla formazione pare redditizia la capacità di intessere una rete di relazioni col mondo in cui si vuole entrare. Alcuni si sono dovuti dare molto da fare prima di trovare un impiego e devono tuttora combattere con contratti a scadenza che li rimette ciclicamente in ballo, questo va imputato non tanto alla natura del mercato, quanto a politiche aziendali che non valorizzano la persona ma cercano solo manodopera a basso costo. Spesso i dirigenti non hanno le competenze per sostenere le nuove leve e svilupparne le potenzialità. Il mondo della formazione universitaria non unisce una preparazione pratica a quella teorica tanto che il protrarsi degli anni di studio sembra uno stratagemma per ritardare la domanda di lavoro: tutte le ditte cercano “personale con esperienza” dimostrando che la scuola non crea basi adeguate. A ben guardare è proprio a causa dell’atteggiamento di chi vuole rimanere giovane a tutti i costi che non si accettano nelle stanze dei bottoni dei competitori che giovani lo sono realmente.
In tutti i dialoghi ho avvertito un legame con la propria terra di origine e con le relazioni significative anche se alcuni hanno dovuto spostarsi per realizzarsi. Il settore pubblico, al contrario del prvato, pare quello in cui è più difficile entrare ma poi fornisce più sicurezze. Derivante dal senso di sfruttamento molto diffuso, c’è in alcuni la percezione che il lavoro costituisca un ostacolo allo svolgimento sereno della vita. Per nessuno il fatto di trovarsi nel momento della pandemia sembra aver influito troppo nella ricerca del posto di lavoro, anzi in alcuni casi le circostanze hanno favorito l’impiego (ad esempio in ambito sanitario o edilizio). Vorrei concludere con una nota di ottimismo: se è vero che pressoché tutti vedono davanti a sé un futuro incerto, è altresì vero che nessuno degli intervistati mi è parso rassegnato. C’è consapevolezza delle proprie capacità e volontà di continuare a formarsi per aumentarle, ho visto il desiderio di umanizzare l’ambiente di lavoro; questo mi dà la speranza che la nuova generazione sia capace di unire alla ricerca del profitto quella dello sviluppo umano integrale, per costruire un mondo più fraterno e giusto in cui i valori della realizzazione personale, famigliare e sociale siano di casa.