Saldo nella Chiesa, aperto al mondo intero

In Francesco convivono una forte identità cattolica e un dialogico rispetto verso tutti

 di Felice Accrocca
arcivescovo di Benevento, storico

 Nei suoi primi anni di vita la famiglia francescana codificò pian piano il proprio ideale di vita.

Il primitivo testo presentato a papa Innocenzo III venne ampliandosi pian piano, fino ad assumere, nel Capitolo del 1221 (giusto ottocento anni fa, quindi), la forma dell’attuale Regola non bollata, testimone della coscienza che i frati vennero acquisendo della propria vocazione e del modo in cui essa doveva essere vissuta.
Una scelta di campo fu, a Francesco e ai suoi, subito chiara: a prescindere dal vissuto degli ecclesiastici, essi si sarebbero mantenuti nell’ortodossia e in comunione con la Chiesa. Il Signore aveva infatti dato a Francesco una «grande fede nei sacerdoti che vivono secondo la forma della santa Chiesa Romana, a motivo del loro ordine» (Test 6: FF 112), che altre scelte furono subito escluse: prova ne è il fatto che dopo aver ricevuto, dallo stesso Altissimo, la rivelazione della vita «secondo la forma del santo Vangelo», Francesco la fece «scrivere con poche parole e con semplicità, e il signor Papa la confermò» (Test 14-15: FF 116).

 La fede nella Chiesa

Non si può fare a meno di notare, a riguardo, che nella prima parte del Testamento, quella cosiddetta “biografica”, per ben sette volte Francesco fece riferimento esplicito a un intervento di Dio nella sua storia vocazionale. Questa forte consapevolezza, però, non lo spinse mai a fare appello a quella che Robert E. Lerner ha, con espressione efficace, definito una «difesa estatica». Il Lerner, infatti, studiando il complesso rapporto di Gioacchino da Fiore con l’esegesi di Agostino, ha posto in rilievo il dilemma dell’abate calabrese, ormai dissonante rispetto all’interpretazione che il vescovo africano aveva dato di un noto passo del libro dell’Apocalisse: contraddire Agostino non era uno scherzo e comportava una condanna sicura. Dove e come trovare la forza di procedere in situazioni come questa?
Lerner ha individuato nella «difesa estatica» una soluzione diffusa, adducendo tre esempi in proposito: Roberto di Liegi - meglio noto come Ruperto di Deutz -, Gioacchino da Fiore, Arnaldo da Villanova; tutti e tre furono “sbloccati” da un’esperienza estatica, da un’intuizione rivelatrice, e in seguito ad essa tutti e tre divennero dei torrenti in piena. Francesco, invece, sottomise al discernimento della Sede Apostolica l’intuizione religiosa che gli era stata rivelata dal Signore: non si può non considerare attentamente la valenza di questo suo gesto, che avrà ripercussioni profonde per la storia della primitiva fraternitas e del successivo Ordine francescano.

Si comprende bene, quindi, come nel capitolo XIX della Regola non bollata i frati, di comune accordo, potessero affermare in modo programmatico: «Tutti i frati siano cattolici, vivano e parlino cattolicamente. Se qualcuno poi a parole o a fatti si allontanerà dalla fede e dalla vita cattolica e non si sarà emendato, sia espulso totalmente dalla nostra fraternità. E riteniamo tutti i chierici e tutti i religiosi per signori in quelle cose che riguardano la salvezza dell’anima e che non deviano dalla nostra religione, e veneriamone l’ordine sacro, l’ufficio e il ministero nel Signore» (FF 51-52).
Dire che i frati dovevano essere cattolici, parlare e vivere come tali; che non dovevano allontanarsi dalla fede e dalla vita cattolica, non equivaleva solo a una dichiarazione di ortodossia, ma costituiva pure una riaffermazione della vita secondo il Vangelo. All’ortodossia doveva infatti accompagnarsi l’ortoprassi e questa consisteva nel mettere il Vangelo al centro. La dichiarazione di ortodossia però è netta e volerla ridimensionare sarebbe cosa indubbiamente riduttiva e pretestuosa.

 Una presenza umile

Purtuttavia, ogni genere di intolleranza, anche e soprattutto quella religiosa, era da loro lontana, tanto che nella medesima Regola si sanciva: «I frati che vanno tra gli infedeli possono comportarsi spiritualmente in mezzo a loro in due modi. Un modo è che non facciano liti né dispute, ma siano soggetti ad ogni creatura umana per amore di Dio e confessino di essere cristiani» (Rnb XVI,5-6: FF 43). David Flood collega la redazione del capitolo XVI alle decisioni del IV Concilio Lateranense; tuttavia, è arduo ritenere che il testo sia stato codificato nella forma in cui è giunto fino a noi ancor prima che Francesco si recasse in terra islamica. Molto probabilmente anche per questo capitolo, come per molti altri, deve supporsi una redazione in diverse fasi.
Nella sua interezza, esso esprime la visione francescana dell’obbedienza, che raggiunge il suo culmine nell’abbandono totale al Signore e nella consegna a Lui della propria esistenza (i frati hanno «abbandonato i loro corpi»). È possibile che la prima parte del testo (vv. 1-4) sia stata inserita nella Regola a seguito delle decisioni del Concilio Lateranense IV (1215); meno credibile è invece pensare che sin dall’inizio fossero presenti anche le indicazioni sul duplice modo in cui i frati potevano «comportarsi spiritualmente in mezzo» a «saraceni» e «altri infedeli»: solo dopo essersi sincerati che ciò fosse piaciuto al Signore, essi potevano darsi a un’esplicita opera di evangelizzazione, invitando apertamente i musulmani ad abbracciare la fede trinitaria, mentre rimaneva sempre e comunque possibile l’alternativa di una vita nascosta, che non aveva altro modo di porsi se non quello di una muta e silenziosa testimonianza, senza muovere liti né questioni, sottomettendosi ad ogni creatura.

 Vedere il bello che c’è

Non sappiamo se le convinzioni di Francesco e dei suoi fossero tali prima della loro permanenza nelle terre d’Oltremare (giacché non solo Francesco, ma i suoi stessi frati prima di lui dimorarono in Oriente); certo è che dalla loro convivenza con i musulmani giunsero a tali conclusioni. Quanto essi vissero e insegnarono in un’epoca in cui spirava forte il vento della crociata, fu lo stesso stile di presenza che molti secoli più tardi Charles de Foucauld avrebbe incarnato nei luoghi dove Cristo aveva vissuto.
Peraltro, da quell’incontro con il mondo islamico Francesco apprese qualcosa di bello, che tentò di trapiantare in Occidente. Com’è stato ipotizzato da molti, l’invito presente nella Lettera ai reggitori dei popoli a far annunciare ogni sera, «mediante un banditore o qualche altro segno, che all’onnipotente Signore Iddio siano rese lodi e grazie da tutto il popolo» (Lrp 7: FF 213), può ritenersi infatti il tentativo d’introdurre tra le popolazioni cristiane la consuetudine dell’invito alla lode divina lanciato più volte al giorno dai muezzin dall’alto dei minareti (cf. anche 1Lcu 8; 2Lcu 6: FF 243, 248).
A distanza di otto secoli da quei fatti, dobbiamo riconoscere che è ancora questa la profezia per il futuro, una profezia alla quale sono chiamati, in primo luogo, tutti i figli di Abramo - ebrei, cristiani e musulmani - e tutti i credenti in Dio. Una via che rifugge dall’irenismo a buon mercato e chiede rispetto reciproco, accoglienza, conoscenza dell’altro; una via che ricerca la verità attraverso il confronto e il dialogo, aborrendo ogni forma di violenza.

 

 Dell’Autore segnaliamo:
Elogio della pazienza
Editrice Vaticana, Roma 2021