Come un diadema regale

Preti e frati: quale differenza?

 di Luigi Martignani
cappuccino, officiale della Segreteria di Stato

 È stata presentata alcuni mesi fa all’Università Gregoriana di Roma una tesi di laurea sulla concezione della vita religiosa nel Concilio Vaticano II.

Una sintesi si trova in: Filippo Gridelli, “Forma ecclesiae e forma della vita religiosa. Alla ricerca di una relazione sotto il principio di pastoralità di Vaticano II”, Laurentianum 61 (2020) 317-323, mentre dovrebbe uscire a breve la pubblicazione integrale, per metterne i risultati a disposizione degli studiosi. Perché la vita religiosa? La questione non è così banale come potrebbe sembrare a prima vista, poiché riguarda l’identità e la missione dei Religiosi e delle Religiose nella Chiesa e nel mondo. Più di una volta mi sono sentito rivolgere la domanda, anche da persone che frequentano abitualmente le nostre parrocchie: “Che differenza c’è tra un prete e un frate?”. Francamente, non sono affatto sicuro di essere riuscito a spiegarmi bene.
Occorre, comunque, riconoscere che, per definizione, una tesi di laurea mantiene intatto tutto il proprio valore di ricerca rigorosa, anche se giunge a risultati parziali. In realtà, nel Concilio Vaticano II non si trova una vera e propria definizione della vita consacrata. Infatti, i due documenti che trattano questo tema, Lumen gentium e Perfectae caritatis, si limitano a sottolineare la necessità di una riforma della Vita Religiosa, liberandola dal peso delle strutture e dalle tradizioni del passato, attraverso un ritorno all’intuizione originaria dei fondatori e un aggiornamento dei modelli e degli approcci, per renderla valida e significativa per il mondo attuale.

 L’inutile essenziale

Nel tentativo di indicare qualche elemento più specifico della vita religiosa, il Concilio stesso si rifugia nell’uso dei comparativi. Infatti, afferma che tutti i fedeli sono già in un certo senso consacrati nel sacramento del battesimo e tutti sono chiamati alla perfezione della santità. Perciò i Religiosi e le Religiose si sforzano di abbracciare “più intimamente” e “più fedelmente” nella loro vita, pur con tutti i limiti che ben conosciamo, quei valori a cui i discepoli di Gesù senza eccezioni sono chiamati (cfr Lumen gentium 44; si veda anche Perfectae caritatis 1). Allo stesso modo, la vita religiosa esprime quell’attesa del Regno di Dio e della salvezza completa e definitiva, che si realizzeranno pienamente solo alla fine dei tempi. Anche se, in realtà, più che un’anticipazione dei beni promessi, essa testimonia piuttosto la mancanza, il desiderio e il bisogno di assoluto. Proseguendo su questa strada, alcuni studiosi - ed è stato ribadito anche dagli stessi professori della Gregoriana - giungono alla conclusione che, in termini rigorosi, la vita consacrata non sarebbe strettamente necessaria per la vita della Chiesa, «non appartenendo alla struttura gerarchica della Chiesa» (cfr Lumen gentium 44). Ciò significa che, al limite, potrebbe esistere da qualche parte del mondo una Diocesi senza comunità di Frati o di Suore e che, nonostante questo, sarebbe comunque già integra nella propria identità, garantita dalla presenza di Vescovo, clero e laici.

 Il riferimento diretto a Cristo

Di fronte a questa impostazione, emergono però anche i limiti di una lettura della vita religiosa in chiave “ecclesiologica”, basata sulla concezione della Chiesa, e secondo uno schema di pensiero fondato sulla “necessità”. Infatti altre strade rimangono aperte, se si affronta la stessa questione della vita religiosa da un punto di vista “cristologico”, cioè partendo dalla figura di Cristo, e secondo la categoria della “gratuità”. Lo ricorda lo stesso san Francesco d’Assisi, che scrive: «La regola e la vita dei frati minori è questa, cioè osservare il santo Vangelo del Signore nostro Gesù Cristo» (Fonti Francescane 75).  Dunque, per i francescani e non solo, il primo riferimento della Consacrazione Religiosa non è la struttura della Chiesa, ma l’imitazione e la sequela di Cristo povero, obbediente e casto. 

Per forza di gratuità

La vita religiosa nella Chiesa appare tanto più importante ed essenziale, se liberata dal principio di “necessità”. Essa, infatti, è paragonabile a dei magnifici gioielli, che non sono necessari per la vita della sposa, poiché non si mangiano e non servono alla salute, tuttavia la rendono più bella e raggiante agli occhi dello sposo. I Religiosi e le Religiose formano come un diadema regale di pietre preziose che, proprio perché non necessario, abbellisce e impreziosisce il volto della Chiesa, “sposa adornata per il suo sposo” (cfr Perfectae caritatis 1). A guardar bene, dunque, qualche accenno al concetto di gratuità non manca neppure nel Concilio.
Sarebbe anche troppo semplice richiamare quanti e quali doni di amore disinteressato, servizio, cultura, educazione, accoglienza, prossimità e umanità i Frati e le Suore hanno offerto lungo i secoli, e continuano a offrire ancora oggi, alla comunità cristiana e alla società civile. Senza dimenticare che il Papa attuale originariamente è un gesuita, cioè un religioso che ha scalato tutti i gradi della gerarchia ecclesiastica: formatore, superiore, vescovo, metropolita, cardinale, papa. E, forse, proprio questa originaria formazione e identità di persona consacrata potrebbe spiegare la marcata tensione tra libertà evangelica e necessità istituzionale che si intravede sullo sfondo del suo pontificato.
In questa nostra magnifica e travagliata epoca, in cui tutto ha un prezzo e si ragiona tanto in termini economici e finanziari, qualcuno che nella Chiesa e di fronte al mondo testimoni il senso della libertà e il dono della gratuità, proprio perché non necessario, diventa ancora più vitale ed essenziale.