Nulla di nuovo, tutto diverso

La straordinaria ordinarietà di un medico in tempo di pandemia

 di M.L.
medico

 In questo periodo di pandemia e generale sconvolgimento delle abitudini, mi sono trovata personalmente ad iniziare un percorso di formazione specialistica in ambito medico,

in una città diversa da quella in cui ho sempre abitato, separata da affetti e luoghi “del cuore”, catapultata in una struttura ospedaliera che non avevo mai frequentato, con percorsi preimpostati sconosciuti e colleghi mai incontrati prima, estranea alla rete di relazioni preesistente e ben consolidata. A tutto questo mi sono approcciata con l’entusiasmo e lo smarrimento lievemente eccitato dei nuovi inizi di tappe segnanti. Un po’ per volta ogni cosa ha trovato il suo posto all’interno di un meccanismo molto ben oliato: la città si è colorata di esperienze di vita personale, assumendo tratti familiari, i nuovi colleghi si sono rivelati un affiatato ed affidabile gruppo di amici, molto oltre l’ambito lavorativo, ed abbiamo acquisito insieme una certa dimestichezza ad orientarci nel labirinto, fisico e non solo, dell’ospedale.
Quando è scoppiata l’emergenza coronavirus avevo appena iniziato un periodo in un reparto di medicina d’urgenza, caratterizzato da pazienti di età estremamente variabile e quadri patologici acuti che richiedono degenze di durata ridotta; per necessità questa unità operativa doveva dunque rimanere “pulita”: si tentava pertanto di non ricoverare pazienti positivi per poter garantire assistenza alle patologie “classiche”, quelle che riempivano gli ospedali in epoca non-Covid. Questo aspetto, unitamente alla coincidenza di essere in una città relativamente poco colpita in cui non c’è stata una conversione massiva di tutte le strutture ed un reclutamento massivo di professionisti come è invece successo altrove, mi ha permesso di mantenere i ritmi di vita abituali senza, apparentemente, vivere grandi cambiamenti.

 L’apparenza inganna

“Apparentemente”, perché inizialmente non avevo colto, come molti, anche nell’ambito sanitario, la gravità di quel che stava succedendo. Certo, ho provato forte la preoccupazione per chi era calato fino al collo nella pandemia e in tutto ciò che portava con sé, vedevo quotidianamente amici e colleghi impiegati nei reparti Covid stremati da turni interminabili sotto strati di protezioni che contribuivano a rendere il lavoro estremamente logorante anche sul piano fisico; sentivo medici in servizio nel milanese e nel bergamasco sbigottiti davanti al ritmo di diffusione e al numero di pazienti che vedevano arrivare, non solo giovani medici all’inizio del loro percorso specialistico come me, ma specialisti di lunga data, tutti a dare tutto per mantenere in essere un sistema totalmente impreparato a far fronte ad una emergenza di tale entità; ma finché non hanno iniziato ad ammalarsi i miei amici, gli strutturati che fino al mese prima mi avevano guidato nelle attività di reparto, aveva i contorni sfumati di un racconto, che, per quanto possa coinvolgere, resta comunque confinato tra le pagine di un libro, che controlli aprendolo e chiudendolo. Da lì la minaccia si è fatta concreta. Nel giro di 24 ore la mia bolla di illusione è esplosa e mi sono trovata a portare viveri e medicinali ad amici, fuorisede come me, che non potevano uscire di casa. A telefonare loro con la paura quotidiana che i sintomi peggiorassero. Ho vissuto sulla mia pelle la paura di diventare, per prima, fonte di malattia per chi incontravo, vuoi per una disattenzione fatale nelle procedure di vestizione e svestizione (non ci si immagina quante volte ci tocchiamo occhi, bocca, capelli in una giornata!) vuoi per aver visitato senza tutte le protezioni un malato ritenuto a basso rischio, poi risultato positivo; ho assistito al dramma di chi, a differenza mia, doveva tornare ogni giorno a casa dalla propria famiglia, nucleo di conforto e al tempo stesso pesante fardello di responsabilità. Ed ho provato in prima persona il contrasto tra la frustrazione di vedere bloccate le attività formative previste per i vari anni di specialità (opportunità che non sarà possibile recuperare, con ovvie ripercussioni sulla figura del medico che saremo), e la vergogna per il solo fatto di provare una emozione così poco nobile ed egoista.

 Emozioni contrastanti

“Apparentemente” perché vivere nel quotidiano la dicotomia tra due realtà diventate quasi parallele, quella dentro l’ospedale, dove ci si sentiva sì preoccupati, ma anche uniti e coinvolti in una sfida enorme, dove tutto era in continua evoluzione e non c’era un attimo di riposo, e quella fuori, dove il tempo sembrava fermatosi e dove la confusione e la paura assumevano sembianze mutevoli, è stato destabilizzante e stancante; così abbiamo assistito all’ipocondria di alcuni, alla rabbia e l’arroganza di altri, ad un egoismo dilagante che emergeva nonostante gli applausi pubblici, le canzoni dai balconi e le grandi manifestazioni di riconoscimento agli eroi del momento (non mi soffermo qui sulla fastidiosissima ipocrisia dietro questa retorica, tra l’altro durata giusto il tempo di un soffio, come ogni moda), a manifestazioni di nervosismo, a quelle di fiducia e gratitudine per il nostro operato, alle richieste di pareri sulla pandemia, quando già troppi ne parlavano in continuazione, spesso senza aver nulla da aggiungere, fino all’esibizionismo esasperante dei negazionisti e delle loro certezze incrollabili su un argomento ancora in corso di studio, per cui certezze non ce ne possono essere per definizione.
“Apparentemente”, perché, appunto, ciò che non si conosce fa terrore e la tensione per un patogeno ignoto - caratterizzato da effetti sull’organismo umano che scoprivamo quasi in tempo reale con la loro presentazione, da un’incertezza di fondo che toccava ogni ambito medico (dalla terapia migliore da impostare alla prognosi da comunicare alla famiglia, dalla decisione di chi ricoverare e chi gestire a domicilio alle criticità di posti letto disponibili limitati, dalle precauzioni per mantenere protetti gli operatori in modo da non trovarsi di fronte a focolai interni che avrebbero decimato il personale alla necessità di trovare l’assetto logistico migliore per non perdere efficienza…), da linee guida, protocolli di cura ed indicazioni pubblicati quotidianamente poi aggiornati a ritmi serrati, spesso l’uno in contrasto con l’altro - e la paura di diventare untori inconsapevoli hanno lavorato ai fianchi, silenziose, per presentare il conto quando la situazione è sembrata migliorare lievemente.

 Uscire dalla bolla

Così alla riapertura ci siamo trovati sfasati nel tempo, sulle spalle due mesi di vita incentrata totalmente sul lavoro, senza svaghi, senza grossi spazi ed energie per curare la dimensione spirituale e, nella maggior parte dei casi per noi specializzandi, senza contatti con gli affetti più cari, disabituati alle dinamiche relazionali fuori dal ruolo professionale. Privati di quei tempi di “stacco” e di noia di cui al contrario la maggior parte della popolazione non sanitaria aveva fatto il pieno (oltre i limiti di sopportazione, in molti casi). Un bagaglio emotivamente ingombrante e nascosto che ha reso il ritorno alle dinamiche relazionali preesistenti complicato o addirittura impraticabile.
La ripresa della nuova e attesa ondata di contagi ci trova stremati, su tutti i piani. Ma forse più preparati ad affrontare le conseguenze emotive e consapevoli di quanto siamo bisognosi di silenzio e contemplazione per affrontare la frenesia e ridimensionare l’ansia data da una situazione di cui non abbiamo il controllo.