Fratello mio fatti capanna
La malattia e la debolezza ci insegnano che l’altro è il rifugio e la salvezza
di Fabrizio Zaccarini
della Redazione di MC
“Come posso evitare di morire?” chiese il re malato al mago.
Il mago rispose che doveva mettere al suo posto, per un giorno, un mendicante «storpio, gobbo, mezzo cieco, sporco e pieno di croste». Quello, l’uomo che gli assomigliava di più, sarebbe morto al suo posto. Ma il re, non vedendo nessuna somiglianza tra lui e quel mendicante, protestò: «Come è possibile? Tra noi due c'è un abisso». Il mago rispose: «Un re che deve morire somiglia soltanto al più povero, al più disgraziato della città». Rattristato, il re si ritirò nelle sue stanze e «quella sera stessa morì, con la corona in testa e lo scettro in pugno» (Gianni Rodari, Favole al telefono).
L’empatia ci salverà
Come non riconoscere in San Francesco il negativo biografico del re della favola? Il giovane re delle feste assisane, che aveva sognato di diventare cavaliere, trova la via della vita spostandosi dall’altra parte dell’abisso. Era troppo amaro per lui vedere i lebbrosi, ma Dio tra loro lo condusse. Egli fece con loro misericordia e ciò che prima gli sembrava amaro, gli «fu cambiato in dolcezza d’anima e di corpo» (FF 110). Su come trattare i fratelli o le sorelle ammalate si possono confrontare le regole francescane, quella con bolla papale del 1223, quella non bollata del 1221 e quella di Chiara. Un filo rosso, tenace, ritorna in tutte e tre, manifestando palesemente quale sia, su questo argomento, il nucleo irrinunciabile della tradizione francescana: «lo servano come vorrebbero essere serviti essi stessi» (FF 34; 92; 2797; cf Lc 6,31).
Nessuno, credo, si sorprenderà per questo. I legami fraterni, o affettivi in genere, e le relazioni empatiche che ne derivano, sono, ovviamente, il bene rifugio più importante per chi si ammala. La pandemia, che in questo 2020 ci costringe a rimanere a distanza anche da chi amiamo, ce lo ricorda con lacerante efficacia. Accadeva altrettanto ai contemporanei di Francesco per le scarse conoscenze scientifiche e le condizioni di precarietà sociale, economica ed igienica, in cui viveva la maggior parte delle persone. Con loro, e come loro, la prima fraternità minoritica, che non ha proprietà stabile di alloggi in cui ricoverare gli ammalati e nessuna rendita economica su cui poter contare.
Il castigo e i dolcetti
La sorpresa diventa legittima però, quando si recupera il resto del capitolo X della regola non bollata. Francesco si rivolge direttamente al frate ammalato. «E prego il frate infermo di rendere grazie di tutto al Creatore; e che quale lo vuole il Signore, tale desideri di essere, sano o malato, poiché tutti coloro che Dio ha preordinato alla vita eterna, li educa con i richiami stimolanti dei flagelli e delle infermità e con lo spirito di compunzione, così come dice il Signore: “lo quelli che amo, li correggo e li castigo”. Se invece si turberà e si adirerà contro Dio e contro i frati, ovvero chiederà con insistenza medicine, desiderando troppo di liberare la carne che presto dovrà morire, e che è nemica dell’anima, questo gli viene dal maligno ed egli è uomo carnale, e non sembra essere un frate, poiché ama più il corpo che l’anima».
Non si può non avvertire un certo fastidio di fronte a queste parole. Francesco, tutto preso dal sogno della evangelica prossimità ai poveri, è così esigente con chi già porta il peso della malattia, da farci pensare evaporato l’orizzonte empatico. Sembra ragionevole pensare che il superamento di queste espressioni, così scostanti, nel passaggio della regola del 1221 a quella del 1223, non sia da addebitare alla sola necessità di sintesi.
Le fonti biografiche ci fanno sapere che già il giovane Francesco, prigioniero a Perugia fu afflitto da patologie “cliniche” (malaria?), le cui conseguenze non lo abbandoneranno più fino alla morte. Una sofferenza fisica, così articolata e protratta nel tempo, ha certamente segnato la psiche e la spiritualità del santo. Accolta come paradossale luogo di sequela e di grazia deve aver contribuito a erodere la compattezza dell’impostazione dualista (la carne come nemica dell’anima) che, esplicitamente, si riscontra nel capitolo. È un processo che non poteva trovare pieno compimento nell’esperienza storica del santo: dovranno passare secoli prima che sia praticabile una spiritualità cristiana davvero libera dal dualismo platonico. Il processo, dal mio punto di vista nemmeno oggi portato a pieno compimento, lasciò già nel santo di Assisi una testimonianza significativa e tenerissima. Moribondo scrive all’amica nobildonna romana, da lui detta “frate Jacopa”, per chiederle, visto l’avvicinarsi della morte, di fargli visita, di portare i mostaccioli, dolcetti alle mandorle che gli piacevano tanto, e un panno di cilicio per avvolgervi il suo corpo (FF 253).
Resta l’essenziale
Questo diverso rapporto col proprio sé corporeo è certamente da mettere in relazione con il superamento del tono non empatico del capitolo X. D’altra parte, credo valga anche la pena provare a vedere nelle stesse parole elementi evangelici da salvare e non soltanto acqua sporca da gettare via. È certamente poco sim/patico chiedere al malato di ringraziare Dio di tutto, sano o malato che egli sia. Ma la richiesta non è evangelicamente irrecuperabile. I discepoli chiesero a Gesù: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco?». Rispose Gesù: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio» (Gv 9,2).
Ecco, la richiesta, per quanto dura, può essere compresa alla luce del mistero pasquale che offre salvezza, a partire da un uomo crocifisso che muore presentandosi radicalmente al Padre, con tutta la sua protesta, «Dio mio. Dio mio perché mi hai abbandonato?» (Mc 15,34), e tutta la sua fiducia filiale, «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc 23,46). Riceverà risposta dal Padre nel mistero di un sepolcro rimasto vuoto.
Lo stesso atteggiamento di apertura alla vita e a tutte le sue manifestazioni, già profetizzato nella durezza di queste parole, consente a Francesco di trovare, nella diminuzione di vita dovuta alla sofferenza fisica, un paradossale accrescimento di ciò che, nella vita, è essenziale. Ciò non toglie che l’idea di un Dio, che punisca i suoi figli con la verga della malattia, risulta indubbiamente problematica e difficilmente armonizzabile con il complesso della Rivelazione biblica, come la comprendiamo oggi.
Potrebbe avere qualche potenzialità liberante l’invito a non pretendere eccessivi trattamenti terapeutici e a non proiettare la propria inevitabile angoscia sui fratelli. Se leggo il richiamo come un invito ad accogliere con umiltà e comprensione le cure possibili, allora può diventare persino prezioso per noi, oggi, incapaci di accogliere la malattia e la morte come parte insopprimibile della vita. Leoni da tastiera, politici e perfino scienziati (sedicenti?), a volteggiare nelle acrobazie del negazionismo, ad accanirsi nello scarico di responsabilità su spalle altrui, a contrapporsi a chiunque pur di non far squadra con nessuno.
A me sembrerebbe saggio accogliere il richiamo di Francesco per riscoprire nella malattia, qualsiasi esito abbia, una possibilità di guarigione dalle psicosi dell’autocentratura, che vede salvezza propria nella rovina altrui e scava abissi e alza reticolati. Forse capiremo anche noi: dove ci scopriamo deboli abbiamo la possibilità di ritrovare una relazione nuova con Dio, con la creazione, facendoci prossimi, ammalati e sani, gli uni agli altri. Una corona e uno scettro che cercano re umili che, finalmente, scoprano la propria regalità nella cura del volto dell’altro.