Star del web, youtuber, influencer. Di lui si è occupata la stampa specializzata, ma anche i giornali e le tv nazionali e persino le riviste di gossip. Gli aggettivi si sprecano per don Alberto Ravagnani, 26 anni, brianzolo, prete dal 2018, insegnante di religione e responsabile di oratorio, che ha fatto del web uno dei suoi luoghi di evangelizzazione e catechesi. In pochi giorni ha spopolato tra i giovani, di Chiesa e non. Aprendo davvero molte domande, attirandosi ovviamente elogi, ma anche critiche.

di Gilberto Borghi

 Il tubo è catechetico

Don Alberto, ovvero dire la fede su Youtube

 Auto estromissione

I suoi video su Youtube, pillole di catechismo, non più lunghe di cinque minuti, hanno avuto da 80.000 a 500.000 visualizzazioni ciascuno, con una media di circa 120.000.

Ma i titoli non lasciano dubbi: “Prendi in mano il vangelo e inizia a leggerlo!”, oppure: “A cosa serve andare a messa?”, e ancora: “Perché avere fede non è da sfigati”. Il linguaggio è “giovanile” e “ordinario” ovviamente, ma i temi sono strettamente catechistici. Buttati così, direttamente dentro il mare del web, in faccia a chiunque abbia curiosità, ben fuori dalle mura della parrocchia.
Ci si poteva attendere un naufragio mediatico, con ascolti bassissimi e commenti patetici. Non è andata, e non sta andando, così. E già questo, forse, ci interroga: davvero certi contenuti non sono ascoltabili dal “mondo”? Davvero non c’è più domanda aperta nel cuore dei ragazzi su cosa sia la fede e che senso abbia? Davvero sono gli “ascoltatori” ad essere sordi? Una certa narrazione del rapporto Chiesa-mondo, in questo momento, sottolinea sempre e solo la indisponibilità delle persone e la loro mancanza di interesse per le questioni di fede, imputando, implicitamente o meno, alla “cultura” dominante il motivo di tanta disaffezione alla Chiesa. Un’altra narrazione, tutta diversa invece, imputa alla Chiesa stessa tale risultato, perché non si adegua, nei suoi contenuti e nelle sue regole, ai tempi che viviamo, con conseguente auto estromissione dall’ordinario “discutere” delle persone.

 Panacea o vituperio?

E don Alberto non sfugge certo a questa frattura così netta nei giudizi: c’è chi lo osanna e chi lo condanna, chi lo aspetta al varco, chi lo utilizza, chi lo strumentalizza e chi lo ignora. Ma proprio queste reazioni, così varie e evidenti, dicono che un risultato l’ha raggiunto: mostrare che si può veicolare contenuti di fede in modo ascoltabile e fruibile anche sul web e anche a chi non ha un buon rapporto con la Chiesa. La diocesi di Milano prova a supportarlo e a investirlo del ruolo di “panacea” risolutiva dell’abisso, al momento incolmabile, tra le capacità comunicative dei cattolici e i canali di ascolto del mondo. Ma all’interno della stessa diocesi alcuni, soprattutto preti, lo criticano aspramente: uno spessore teologico troppo superficiale, delle forme linguistiche inadatte ad un contesto di fede e il timore di una deriva “superficialistica” della fede. Con, dietro a queste critiche, anche una probabile invidia personale.
Nessuna delle due posizioni, però, prende seriamente in considerazione che la forma e i linguaggi con cui diciamo le cose incidono profondamente sui contenuti stessi e sulla loro possibilità di essere percepiti e compresi. A dire come, nella Chiesa, ancora non si sia colto come la forma della comunicazione e i suoi contenuti non siano realmente separabili in modo netto. Per avere uno stile in cui l’interlocutore si può riconoscere, don Alberto stuzzica la superficie di contatto comunicativo con l’altro con segnali (verbali e non) che producono sensazioni piacevoli e immediate, emozioni sintoniche e brevi che consentono così di aprire una certa quota di “interesse” in chi guarda e ascolta. Questo richiede al don l’uso massiccio della mimica, soprattutto facciale e paraverbale, e dell’immagine sincopata, affinché il segnale “stuzzicante” resti attivo, perché i tempi di vita di questo tipo di sensazione sono molto brevi. E perciò anche il video, complessivamente, deve avere la forma di una clip, veloce e puntuale.

 Il mezzo è il messaggio

Ora, in questo stile comunicativo il messaggio possibile deve assoggettarsi a queste forme. Non ci può essere spazio per riflessioni, spiegazioni, interlocuzioni. Non ci si può attardare a portare prove e a mostrare conseguenze di ciò che si dice. E soprattutto, non si possono veicolare concetti articolati e sfumati. Manca cioè tutto ciò che è “elaborazione” del dato percepito. Il contenuto veicolato serve a dare una risposta semplice, chiara, definita, e soprattutto immediata, alla domanda che l’interesse aperto nell’interlocutore potrebbe aver suscitato. Questo spiega anche come mai la teologia veicolata da don Alberto abbia molti sentori del catechismo di san Pio X: risposte concise, definite, semplici a domande di enorme rilevanza esistenziale sulle quali l’uomo si arrovella da millenni. In sostanza è la forma comunicativa stessa, scelta da don Alberto, a permettere e chiedere quel tipo di spessore teologico, di analisi, di profondità e non altro. Non si può, quindi, imputare a don Alberto l’assenza di ciò che la sua scelta di stile impedisce strutturalmente.
Resta però una domanda aperta: quale tipo di fedele tende a costruire una proposta di fede fatta in questo modo? Se parliamo in modo frammentato ad un uomo frammentato, non incidiamo per nulla sulla sua malattia. Don Alberto stuzzica la percezione, la pelle delle persone, ma spera di parlare alla loro testa. La separazione interiore tra pelle, cuore e testa resta immutata. E così si va verso una fede che si confina nell’intimo dell’emozione, e si vive solo nei riti, o che si traduce immediatamente in un moralismo operativo che rischia di diventare una ideologia. L’uomo di oggi ha bisogno che qualcuno parli al suo cuore, perché è lì che la ricomposizione delle sue parti è possibile. Se questo, perciò, sarà lo stile di comunicazione evangelizzatrice futura rischiamo davvero di avere, forse, gente religiosa, ma senza fede vera.
Se invece immaginiamo, come lo stesso don Alberto ha lasciato intendere in alcune interviste, che questa forma di comunicazione possa essere solo il punto di inizio di percorsi possibili, che dovranno poi uscire dal web e rendersi concrete relazioni interpersonali, allora possiamo anche riconoscere che lui sta facendo un lavoro interessante. Ma, allora, saranno le altre persone, soprattutto gli operatori pastorali, che, invece di fermarsi alle critiche, dovranno saper “elaborare” queste pillole di catechismo con gruppi reali di persone. E qui certo che ci sarebbe anche lo spazio di una critica teologica ai contenuti di don Alberto, a cui parteciperei volentieri, ma almeno il suo contributo potrebbe servire a rendere possibile una discussione, una riflessione aperta, che, nelle forme comunicative usuali e sdrucite, mediamente utilizzate nella Chiesa, è al momento impossibile.