Quando il gioco si fa duro, i fragili cominciano a giocare

Cercare una povertà integrale per fare della propria fragilità un’occasione di relazione 

di Fabrizio Zaccarini
della Redazione di MC

  La storia francescana abbraccia più di otto secoli e «qualcosa rimane tra le pagine chiare e le pagine scure» (Rimmel, Francesco De Gregori)


Cancellare dalla nostra memoria nomi ed eventi spiacevoli, si può in parte. Dalle pagine della storia non è dato. Così tra le pagine del nostro album di famiglia puoi trovare Pietro di Giovanni Olivi, che convince papa Niccolò III ad assumersi la proprietà formale dei conventi francescani, lasciandone però l’usufrutto ai frati, e salva la capra della povertà (i frati secondo la regola non potevano possedere né personalmente, né comunitariamente) e i cavoli dei conventi (necessari dato il numero dei frati e la qualità di vita della maggior parte di loro); oppure Michele da Cesena padre generale dei francescani deposto e sostituito perché, non contento di aver intimato a papa Giovanni XXII e vescovi tutti di rinunciare ad ogni proprietà, giunse ad appoggiare l’antipapa, visto che il papa non voleva obbedirgli.
Ecco: aggrappati all’intenzione di restare fedeli alla volontà del fondatore e incapaci di riconoscere l’eccedenza della proposta di Francesco rispetto alla loro realtà, i frati, concentrano tutte le loro forze, in termini evangelici induriscono il volto, in direzione puramente giuridica e polemica. Il risultato? Una povertà che da desiderio di libertà e leggerezza, mai pienamente acquisito e sempre da cercare, è ridotta ad ambiguo stratagemma giuridico, oppure a campo di muscolari battaglie. Il paradosso è che i moderati neutralizzano la povertà a forza di compromessi e i pauperisti la depauperano di sé stessa.

 Alle radici della povertà

Certo, la malattia era nelle fronde, non nella radice della pianta. Se qualcuno si fosse ricordato del capitolo IX della Regola non bollata, forse qualche equivoco avremmo potuto evitarlo. «Tutti i frati si impegnino a seguire l’umiltà e la povertà del Signore nostro Gesù Cristo, e si ricordino che nient’altro ci è consentito di avere, di tutto il mondo, come dice l’apostolo, se non il cibo e l’occorente per vestirci, e di questo ci dobbiamo accontentare. E devono essere lieti quando vivono tra persone di poco conto e disprezzate, tra poveri e deboli, tra infermi e lebbrosi e tra i mendicanti lungo la strada» (FF 29-30).
Comincio dalle ultime tre parole: lungo la strada. Tre parole che rimandano alla precarietà che storicamente il primo gruppo di frati minori viveva ogni giorno, ma anche ad un passo evangelico: «mettiti presto d'accordo con il tuo avversario mentre sei per via con lui» (Mt 5,25). L’avversario che ci accompagna lungo tutta la strada della nostra vita è proprio la nostra fragilità. Non ci sono trucchetti giuridici, disponibilità economiche o fantasie di potere che valgano: fragili e mortali siamo, fragili e mortali restiamo e perciò tutti, al di là delle maschere e dei teatrini, siamo irrimediabilmente poveri. O questa insopprimibile povertà, che è segno indelebile di umanità, diventa accesso a nuovi doni di fraterna convivialità, oppure l'avversario ci consegnerà al giudice, e il giudice alla guardia e noi saremo gettati in prigione e non usciremo di là finché non avremo pagato fino all'ultimo spicciolo! (cf. Mt 5,25-26).
Frate Francesco, dicendo «Il Signore dette a me, d’incominciare a fare penitenza così», testimonia che, allora, lasciandosi condurre tra i lebbrosi, gli fu dato di iniziare un cammino che, a pochi mesi dalla sua morte, ancora stava continuando. Tommaso da Celano racconta che in quei giorni egli si raccomandava: «Cominciamo, fratelli, a servire il Signore Iddio, perché finora abbiamo fatto poco o nessun profitto!» (FF 500). Ai fratelli che vivono nella precarietà lungo la strada, Francesco dice, con atteggiamento autoritativo, che, stando tra poveri e deboli, devono essere lieti. “Perché?” ci si potrebbe chiedere. Perché lì, finalmente, possono imparare a non fuggire di fronte alla proprie piaghe e fragilità. Francesco stesso tra i lebbrosi ha iniziato a smarcarsi dall’impostazione narcisista di vita che lo costringeva ad autocentrarsi tutto su sé stesso, a far dipendere la sua felicità dal conseguimento delle sue esagerate ambizioni di successo. Non deve fuggire di fronte al fratello piagato per poter sfuggire alle proprie piaghe e fragilità, ora l’incontro con l’uomo, con la fragilità di ogni uomo, la propria compresa, è motivo di dolcezza conviviale e perciò di gioia.

 L’altra sorella

Tutto ciò è possibile solo per chi segue la povertà e l’umiltà. La vicinanza dei due termini non è affatto casuale. Nel Saluto alle virtù, Francesco assegna una sorella ad ognuna delle virtù e la sorella della «signora santa povertà» è la «santa umiltà». Ad ogni virtù, poi, è affidato il compito di contrastare vizi e atteggiamenti contrari al bene dell’uomo. È l’umiltà che confonde la superbia che vorrebbe spingerci a illuderci d’essere superuomini capaci di autoredenzione. Perciò una povertà che «contrasti l’avarizia e la cupidigia di questo mondo» (FF 256), ma si dimentichi dell’umiltà, verrà, ben presto, messa in buca dalla superbia. La storia francescana ci ha offerto un’evidente conferma.
Povertà e umiltà da seguire hanno poi un volto ben determinato: infatti, sono la povertà e l’umiltà del Signore nostro Gesù Cristo che indurì il volto incondizionatamente verso il dono totale di sé. Egli che «non aveva dove poggiare il capo», nonostante il peso della tristezza e della paura per quel calice che non avrebbe mai voluto assaggiare, non se ne andò via. Povero di tutto, anche del suo stesso ruolo messianico, sapendo che poteva trovarsi solo nell’abbraccio del Padre, seppe dire «non la mia, ma la tua volontà sia fatta». 

Ecco la via

È questa la povertà integrale da cercare. Questo l’atteggiamento di chi riconosce, custodisce e promuove la vita, integralmente. La vita di tutti, la vita di tutto. E allora saranno pronti i francescani, uomini e donne, religiosi e laici, a portare da mendicanti per il mondo la loro fragilità, a invitare il mondo a non nascondersi di fronte alla propria condizione creaturale e labile, destinata a compiersi in pienezza solo grazie all’azione del Padre, oltre i limiti dello spazio e del tempo. Saranno pronti a giocare quella fragilità responsabilmente nelle relazioni di fraternità, a volte consegnando ai fratelli il proprio bisogno, altre volte prendendosi cura di loro. Infatti «con fiducia l’uno manifesti all’altro la propria necessità perché l’altro gli trovi le cose necessarie e gliele dia. […] E ciascuno ami e nutra il suo fratello, come la madre ama e nutre il proprio figlio» (FF 32).
Se non si chiudono gli occhi sulla limitatezza delle risorse, se fragilità e necessità non sono vissute come vergogne da nascondere o come occasioni di prevaricazione sul debole, ma come porte d’accesso alla libertà della relazione, allora qui il mondo nuovo dell’ecologia integrale inizia ad esistere. Qui dove si rimane alla sequela di Cristo, con il volto indurito e le forze unificate non verso l’affermazione di sé, ma verso il compimento della volontà del Padre. Qui il bene della natura è il bene dell’uomo e l’ordine non dipende da manganelli gerarchici, ma dal fratello che al fratello si consegna.
Finalmente la ricchezza di pochi non è la povertà di tanti, ma la povertà di tutti è la ricchezza di ciascuno.