Ti bastan poche briciole 

di Dino Dozzi
Direttore di MC

 La clausura forzata da coronavirus favorisce la produzione, lo scambio e la lettura di vignette e riflessioni varie tra le quali alcune di reale interesse: le prime servono a sdrammatizzare, le altre a tentare di cogliere l’insegnamento del presente e ad intravvedere il cammino del “dopo”. È questo tentativo di buttare il cuore al di là dell’ostacolo che vogliamo tentare anche noi, abbracciando fin d’ora la speranza del futuro, il che ci serve per vivere con accettabile serenità anche il difficile presente che si sta allungando oltre il previsto. Abbracciare è sporgersi verso l’altro, aperti per accogliere e farsi accogliere: per abbracciare bisogna avere fiducia, che non è mai a rischio zero.
Prima cercavamo momenti per allontanarci dal caos, ora la solitudine è dura per tutti, in molti casi drammatica. Il susseguirsi identico delle giornate assopisce la percezione del tempo e il calendari
accatasta le settimane come fossero una matassa indistinta. Siamo alle prese con un evento ingovernabile, improvviso, più grande di noi, che ci rende impotenti e ci fa sperimentare la paura, ma che ci offre anche la possibilità di conoscere in maniera nuova i nostri limiti, le nostre debolezze, i nostri errori, ma anche i nostri talenti, le nostre potenzialità, la nostra vocazione ad essere sempre in cammino, capaci di attraversare le tempeste.
«Non ti importa di noi?»: la domanda dei discepoli a Gesù sulla barca nella tempesta risuona nella bocca e negli occhi di malati e di sani, di figli e di genitori, di nonni e di nipoti, di fidanzati e di amici. Son tempi in cui cambiano i parametri: per garantire il bene di chi amiamo dobbiamo stargli lontano. Questo esige un momento di riflessione. E riflessione esige anche il rapporto fedeli-pastori in campo ecclesiale. Meglio l’eroismo del francescano bacio al lebbroso o il prudente distanziamento anche liturgico? Meglio tornare il prima possibile al lavoro per salvare economia e stipendio rischiando il riacutizzarsi del contagio o attendere con pazienza la fine della pandemia con i sacrifici personali, famigliari e sociali connessi?
Non siamo solo animali sociali, ma anche animali relazionali. La momentanea privazione della socialità causata dalle misure di distanziamento sociale ci sta sottoponendo a una dura prova, perché non siamo nati per “fare le isole”, ma per essere “parti di un continente”. La rarefazione esistenziale ci sta però offrendo la possibilità di scegliere che cosa conta e che cosa passa, di separare ciò che è necessario da ciò che non lo è. La paura e l’istinto di autoconservazione possono spingerci a gesti di grande egoismo, ma il coronavirus ci dice anche che abbiamo bisogno degli altri, come gli altri hanno bisogno di noi: nessuno si salva da solo. Siamo tutti sulla stessa barca, ha ripetuto papa Francesco il 27 marzo in Piazza San Pietro.
Lo smantellamento del sistema sanitario pubblico ha trasformato questo virus in una catastrofe. Certo: non è redditizio a breve termine prevenire eventi come una pandemia, ma la fase 2 del convivere con essa sarà lunga; alla logica della cicala conviene preferire la preveggenza della formica. Senza un efficiente servizio sanitario pubblico che consenta di selezionare e curare tutti non c’è futuro. La privatizzazione dei sistemi sanitari è un’opzione irrazionale: anche i più privilegiati non possono restare totalmente separati dagli altri, la malattia li raggiungerà comunque. La salute è un bene comune globale e deve essere gestita come tale. Siamo più disposti ad ascoltare i “consigli” del Fondo monetario internazionale (Fmi) che quelli dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms). Lo scenario attuale mostra che abbiamo torto.
Avevamo cominciato a pensare al nostro pianeta come ad un gigantesco supermercato con tutto a nostra disposizione e per sempre: ora abbiamo incontrato il cartello “Benvenuti in un mondo limitato!”. L’enciclica di papa Francesco Laudato si’, già prima del coronavirus, ci aveva indicato la via di una felice sobrietà e di un doveroso rispetto per la finitudine del nostro mondo.
Per ricostruire il futuro, da evitare è la scorciatoia dell’autoritarismo come soluzione più rapida ed efficace (perché anche la libertà è un bene comune da salvare); come pure il ripristinare il modello economico di ieri, guardando al futuro con lo specchio retrovisore della globalizzazione finanziaria e dello sfruttamento irresponsabile del pianeta (la crisi ecologica ci garantisce pandemie ricorrenti).
«Sull’orlo del baratro ho capito la cosa più importante», miagolò Zorba. «Ah sì? E che cosa hai capito?», chiese l’umano. «Che vola solo chi osa farlo». Luis Sepúlveda. Nulla tornerà come prima, il nostro lavoro, le nostre abitudini… ma l’amore e la passione ci saranno ancora. Einstein diceva che la misura dell’intelligenza è data dalla capacità di cambiare quando è necessario… Pare sia il momento non di disperarci, ma di verificare la misura della nostra intelligenza.
Covid-19, con la sua “distanza” forzata, ci ha fatto scoprire una nuova vicinanza: siamo tutti interconnessi. Come dice Muhammad Yunus, premio Nobel per la pace nel 2016, ora possiamo nasconderci nelle nostre case, ma dopo, se non costruiamo un mondo più umano, non avremo mura tra le quali nasconderci. È la nostra occasione. Parole come Solidarietà, Bene comune, Fiducia, Fraternità: sono le nostre briciole di Pollicino per ritrovare dopo la pandemia la strada di un futuro di pace, un futuro umano, un futuro.