#andratuttobene anche dopo? La pandemia è stata una tempesta che ci ha ricordato la nostra fragilità e tante paure che pensavamo di aver esorcizzato. Ci scandalizza ancora la fragilità di Dio? Saremo in grado di cambiare mentalità? Interrogativi importanti su cui riflettere.

      a cura di Barbara Bonfiglioli

 Maneggiare con cura

Così fragile che nella fragilità Dio ci cerca

 di Brunetto Salvarani
teologo, saggista, critico letterario

 La buona notizia di dover morire

Chi abita nel nostro Paese ormai lo sa (o dovrebbe saperlo), che ci troviamo a convivere con un territorio quanto mai delicato, e sempre più maltrattato, da un’azione umana – la nostra – assente, rinviata o sbagliata.

Un evento quale un terremoto, un’alluvione, o un incendio di rilevanti proporzioni, e ancor più una pandemia globale come quella provocata da Covid-19, in realtà fanno emergere, traumaticamente e drammaticamente, le contraddizioni che ci affollano da troppo tempo. Di fronte a esso, non vale a nulla appellarsi, leopardianamente, alla dimensione matrigna della natura, più che materna: c’è qualcosa di più, anche se di rado ci riesce di ammetterlo. C’è una nostra responsabilità mancata, a più livelli. Ma non solo. C’è molto altro su cui so/stare.
Vivere in prima persona l’esperienza di un cataclisma ambientale – ma anche di una malattia che ci aggredisce, o addirittura di uno stupido malanno che semplicemente rabbuia il nostro tran tran quotidiano - può aiutarci a prendere sul serio il dato, continuamente rimosso, della nostra naturale fragilità e dell’altrettanto naturale bisogno di rapporti interpersonali gratificanti, in una stagione densa di passioni tristi in cui per paura tendiamo a rifuggire dalle relazioni dirette, a farci bastare quelle virtuali sul social di turno e a ritenerci di norma pressoché immortali. Mentre è solo a partire dalla coscienza dell’ineluttabilità della morte che possiamo farci capaci di autocomprenderci e di relazionarci al mondo e agli altri, perché è propriamente nel fissare un limite alla vita che la morte la plasma nel profondo, dandole forma e possibilità di senso.
La nostra vita interiore trae origine proprio da qui. Tuttavia la certezza della morte (Incerta omnia. Sola mors certa, sosteneva sant’Agostino), sin dalla notte dei tempi alla base del sapere umano e delle esperienze religiose, è oggi messa radicalmente in discussione in occidente, nella nostra società postmortale: una società insofferente dei limiti, che, grazie agli sviluppi della tecnica e al progresso medico, opera incessantemente (e comprensibilmente) per far indietreggiare la prospettiva della fine, spingendo avanti le barriere della nostra longevità. Il timore che di regola ci invade all’improvviso tremare del suolo o al suo soccombere al sopraggiungere di acque così impetuose da infrangere gli argini in cui le avevamo costrette, quella terra che Francesco d’Assisi chiamava nostra madre, dipende in primo luogo dal nostro inconscio saperci mortali, finiti, esposti: anche se viviamo in un senso comune che - imitando maldestramente il mitico Prometeo - ci ammaestra a ignorare la lezione qoheletica e a trascorrere i giorni che ci spettano rifiutando quella che è la nostra autentica natura.

 La fede nuda e il filo dell’incarnazione

In situazioni simili la fede, le fedi, non si rivelano un rifugio sicuro rispetto a chi non vi fa riferimento, né un talismano in grado di offrire ai credenti alcun salvacondotto speciale di inviolabilità, da nessun punto di vista. Piuttosto, lì i cristiani possono sperimentare la verità di una fede nuda, spogliata di ogni retorica e di qualunque risposta a basso prezzo. In tal senso, l’esperienza vissuta di una sciagura individuale o collettiva, potrebbe persino rivelarsi un vero e proprio kairòs, il tempo opportuno di cui parla il Nuovo Testamento di fronte all’irruzione nelle vicende umane di Gesù: occasione per un cambio di mentalità radicale, in cui siamo chiamati a rimboccarci non solo le maniche ma anche e soprattutto il pensiero, la mente e il cuore, riflettendo su quanto il nostro pianeta si sforza di comunicarci con accadimenti di tale portata e accompagnando l’ovvia esigenza di una ricostruzione materiale con i primi, timidi passi di una ricostruzione interiore, antropologica, intima.
Così, trovare la forza di tentare di dare risposta alla presenza, alla potenza, alla pervicace credibilità del male è plausibile solo quando si sperimenta l’incarnazione del bene in relazioni vitali, grazie alle quali torna a essere ragionevole riconoscere che di questo bene si dà sempre una fonte originaria. È qui che affiora l’ipotesi di un’apertura a Dio, ma anche quella della sua fragilità. Il filo conduttore da seguire è quello dell’incarnazione: ecco ciò che è lecito definire la fragilità di Dio. In realtà, chi scopre tale fragilità, e non se ne scandalizza, impara a cercare Dio dove è Dio stesso che ci cerca: non nella potenza, non nel soprannaturale, non nella staticità del sacro (si pensi a quanto vissuto da Elia profeta in 1 Re 19,11-12, in cui Dio si manifesta non nel vento né nel terremoto né nel fuoco, bensì in una voce di silenzio sottile), ma nell’amore creativo, generoso, fedele, paziente, misericordioso.

 Superati

Eppure, di fronte ai ripetuti disastri ambientali degli ultimi anni nel nostro Paese – non meno che in tempo di pandemia - sono affiorate, purtroppo, letture che hanno collegato quegli eventi tragici allo stato di peccato dell’umanità (quale, poi? quella coinvolta, o quanti non ne sono stati minimamente intaccati?). Mi pare si tratti di un indizio, l’ennesimo, di quanto anche chi si proclama cristiano sia spesso distante dal prendere sul serio il vangelo e la sua radicalità scandalosa, da una parte; e dall’altra, di quanto siamo nel complesso ancora abitati da una concezione della realtà di stampo pagano, dall’idea, superata anche nel quadro del Primo Testamento, di una giustizia di Dio totalmente retributiva. Si può rinviare, per fare un esempio, all’episodio del cieco nato nel Vangelo di Giovanni (9,1-41), che segnala la nostra necessità di razionalizzare, di trovare comunque una spiegazione agli avvenimenti dell’esistenza in chiave religioso-naturale.
Assumere seriamente il messaggio di Gesù implica, al contrario, il superamento di qualsiasi meccanismo angustamente religioso per entrare in una dinamica di filialità di un Dio, padre e madre, che non vuole schiavi ma figli e amici (cfr. Gv 15,15). In tal senso, una catastrofe naturale non dovrebbe rinviarci tanto alla domanda, insistentemente replicata sui media e da una pubblicistica modaiola, su dove sia Dio (su questo, resta insuperata e insuperabile la risposta data da Elie Wiesel ne “La notte” riferita alla morte per impiccagione dell’angelo dagli occhi tristi: Dio è lì, in quel ragazzo ucciso per mano umana, ad accompagnare il non senso che ci siamo costruiti da soli); ma dove sia l’uomo, dove la sua umanità, dove ciò che resta ancora della sua fede nell’umano.

 

Dell'Autore segnaliamo:
Dopo. Le religioni e l’aldilà,
Laterza, Roma-Bari 2020