In missione presenta in apertura una riflessione su una missionaria speciale, Annalena Tonelli di Forlì, per la quale nei mesi scorsi è stato avviato il processo di beatificazione; e poi viene raccontato come i centri missionari dell’Emilia-Romagna hanno affrontato questi mesi dominati dal Coronavirus; infine, vien detto cosa bolle nella pentola missionaria a livello nazionale.

a cura di Saverio Orselli

 Non andrà perduto mai

L’insuccesso fecondo di una donna coraggiosa 

di Luca Vitali
Comunità Missionaria di Villaregia, presbitero della Diocesi di Forlì

 Il coraggio di una ‘giardiniera di uomini’

Se qualcuno le avesse domandato: «Annalena tu sei una donna coraggiosa?», credo l’avrebbe guardato con i suoi occhi azzurri penetranti e avrebbe risposto: «Io coraggiosa? Io sono nessuno!».

Sì, Annalena Tonelli -martire della carità forlivese uccisa il 5 aprile del 2003 dopo 30 anni d’Africa -non era una super donna, ma una discepola del Signore che ha cercato di spendere la vita affinché coloro che incontrava potessero fiorire. Scrive: «Gli uomini, i poveri, hanno bisogno di qualcuno che li aiuti a fiorire […]. Dove è questo qualcuno? Dove sono questi qualcuno che potrebbero aiutare gli uomini a fiorire? Dove sono gli operai della messe?».
Se però la parola coraggio significa letteralmente avere cuore (cor-habeo) possiamo ben dire che Annalena Tonelli sia stata effettivamente una donna di grande cuore e dunque di grande coraggio perché, essendo nessuno, ha saputo far spazio a un Altro e lasciare che il suo povero cuore divenisse eco del battito del cuore del Padre, cuore che pulsa di amore senza fine per i suoi figli, specie i più soli e abbandonati.
Partita a 25 anni per la Somalia, voleva semplicemente vivere da discepola, e amare, amare nel Suo nome: «Se non amo, Dio muore sulla terra, che Dio sia Dio io ne sono causa; se non amo, Dio rimane senza epifania, perché siamo noi il segno visibile della Sua presenza e lo rendiamo vivo. In questo inferno di mondo dove pare che Lui non ci sia, lo rendiamo vivo ogni volta che ci fermiamo presso un uomo ferito. Alla fine, io sono veramente capace solo di lavare i piedi in tutti i sensi ai derelitti, a quelli che nessuno ama, a quelli che misteriosamente non hanno nulla di attraente in nessun senso agli occhi di nessuno».

 Annalena tornava

Nel 1974 dà vita al Rehabilitation Centre for the Disabled insieme alle amiche che nel frattempo l’hanno raggiunta, ma il lavoro con i disabili non le basta. Si accorge che ci sono altri poveri ancora più disprezzati e abbandonati: i malati di TBC dei quali afferma: «Mi innamorai di loro e fu l’amore della mia vita». Si prodiga per avere cura di loro e raduna attorno a sé tanti ammalati e le loro famiglie. Inventa un protocollo di cure ancora oggi usato dall’OMS: di giorno ama i poveri «servendoli nelle ginocchia», di notte prega e studia. Dopo 10 anni Annalena è cacciata dal Paese e costretta al rientro forzato in Italia perché scomoda spettatrice di un massacro… Torna in Somalia nel 1987 e vive tutto il dramma della guerra di Mogadiscio: le è chiesto di partire perché è troppo pericoloso, ma lei rimane per stare a fianco dei poveri che sfama ogni giorno e per seppellire i morti altrimenti lasciati sulle strade. Viene obbligata a partire ma non si scoraggia. E torna. Questa volta in Somaliland fino al 2003 quando verrà assassinata, perché se si ama con il cuore di Gesù alle volte si diventa scomodi come Lui e si rischia di fare la sua fine.
Se dovessi tratteggiare alcune dimensioni del suo coraggio, direi che Annalena è stata donna coraggiosa perché ha saputo far spazio, perché ha saputo restare e perché ha saputo testimoniare un amore senza fine. Annalena amava dire: «Si è madri per sempre di coloro che si sono amati». Ed ha interpretato la sua vocazione di donna d’Africa all’insegna della maternità. Non solo perché i poveri li amava prendendoli sulle ginocchia, avvicinandoli in tal modo al suo grembo dilatato a misura del mondo, ma perché sapeva offrire quella tenerezza nel momento difficile della morte: «Ogni malato consapevole di essere alla fine, voleva solo me accanto per morire sentendosi amato». Annalena è stata coraggiosa perché ha saputo far spazio, accettare di allargare la tenda del suo cuore per fare posto ad altri, e altri ancora, sempre di più, nessuno escluso.

The best is to be

Annalena è stata donna di coraggio perché è restata a fianco dei suoi poveri che considerava figli anche nell’ora dura della guerra e del pericolo. In una lettera all’amica del cuore scrive: «The best is to be! [Ciò che conta è esserci]… Non ho dubbi: credo di non averne mai avuti in questi lunghi anni. Ma è bello ripensarlo, ripeterselo, sentire che il cuore balza in petto e batte forte forte perché è vero che the best is to be ed è meraviglioso crederci, viverlo dentro con forza e convinzione assolute quando si è nella prova sulla croce». Annalena nell’infuriare della guerra di Mogadiscio, mentre vede le varie organizzazioni andarsene perché troppo pericoloso sa che Dio non abbandona il suo popolo e: “Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se costoro si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai” (Is 49,15)».
Infine, Annalena è donna coraggiosa perché ha saputo amare di un amore eterno. Cioè sapeva che l’amore è un gioco a perdere e che va offerto in “pura dimenticanza di sé”. Dinanzi a tutto quanto fatto per i poveri ha trovato rifiuto, incomprensione e soprattutto quasi sempre ciò che faceva veniva inesorabilmente distrutto. La nipote le scrive chiedendo che senso avesse tutto questo e se non fosse il caso di gettare la spugna. Quasi a dirle: «Zia, ma che senso ha quello che fai? Non vedi che non cambia nulla? Non ti accorgi che appena te ne vai tutto viene distrutto? Che senso ha continuare ad amare?». Annalena le risponde: «Carissima, non ho mai pensato che il mio lavoro possa andare perduto. È stato ed è un lavoro bellissimo: un servizio vero… quello che ho seminato, la passione, l’amore travolgenti, rimarranno in eterno e per sempre. Oh, no! Non presumo. Sono certa di quello che dico. Io ho piantato nei cuori. Oggi molti di questi cuori sono duri e ciechi, ma non sarà così per sempre. Il seme morirà e marcirà e poi fiorirà. È l’eterna storia del mondo: la storia dell’eterno divenire. L’amore dato, specialmente se dato nella dimenticanza di sé, come è il mio caso, non per mio merito, ma perché Dio mi ha donato di sentire e di vivere così, non andrà perduto mai».
Concludo con qualche riga all’amica Fausta, clarissa francescana di Forlì, nella quale Annalena si domanda come mai, come cristiani, non siamo coraggiosi: «Cara Maria Fausta perdona se tormento te in questa mia dura notte sudanese. Ho bisogno di gridare il mio tormento perché noi cristiani stiamo sciupando, buttando via la nostra vita, perché ci picchiamo di essere sulla croce mentre mettiamo in croce gli altri, perché ci accontentiamo di ‘vivere’, di non fare del ‘male’, di dire qualche preghiera… mentre tanta parte di umanità grida e geme e urla schiava senza avere meritato di essere schiava, sulla croce senza avere meritato né scelto di essere sulla croce. Maria Fausta, quando, quando ci decideremo finalmente a seguire il Signore, a sforzarci sul serio di vivere le beatitudini, a porgere l’altra guancia a chi ci colpisce, a espiare per gli altri ma con gioia, senza sentirci ‘buoni’, diversi, degni di ricompense eterne, a rifuggire con orrore da ogni ipocrisia, da ogni falsa umiltà…».
Mi pare che, assumendo lo sguardo di Annalena, dovremmo stupirci non tanto che ci siano alcuni discepoli e discepole coraggiosi - ritenendoli di fatto perle rare - quanto piuttosto dovremmo domandarci come facciamo noi a non prendere sul serio il sogno di avere un cuore grande come quello di Dio, se è vero che l’unico senso della sequela è divenire simili all’Amato!