Quale pastorale giovanile?
«I poveri? Sono terribili, perché se li incontri impari chi sei». Lo avevo sentito dire da don Oreste Benzi, fondatore della comunità Papa Giovanni XXII. Forse è per questo che quando ho proposto una gita alternativa a due classi mi sono trovato con risposte assolutamente non attese.

a cura di Michele Papi

 Giù la maschera

Contro il logorio di una vita allineata 

di Gilberto Borghi
insegnante di Religione in un Liceo di Faenza

 Un’idea per Lucia & co.

«Va beh, ragazzi, io un’idea ce l’ho, ed è anche diversa dalle solite Amsterdam, Barcellona, Berlino…

È una proposta quasi “oscena”, lo so, ma sicuramente “fuori dal coro”: volontariato in cambio di vitto e alloggio». Quasi tutta la classe drizza le orecchie e mostra curiosità e interesse: «Cioè prof. cosa vuol dire?». «Ci si rende disponibili a servire la cena presso la mensa Caritas di Roma, mentre il resto del tempo è comunque libero, e può essere organizzato come una gita normale. In cambio la Caritas ci ospita gratis, vitto e alloggio». «Ma chi ci va, chi ci mangia, alla mensa Caritas?». «Bèh tutte quelle persone che non hanno possibilità di garantirsi un piatto caldo: barboni, disoccupati, persone sole senza reddito… una umanità molto varia». «Osta, bello, prof.», ribatte Lucia.
Lucia non è né credente, né non credente. Semplicemente abita quella “terra di mezzo” che Castegnaro descrive bene nel suo libro “Fuori dal recinto”, dedicato al rapporto giovani e fede. Terra in cui prevale il bisogno di sperimentare direttamente il senso di una proposta religiosa e non solo e non tanto di teorizzarla prima e poi viverla. Terra in cui prevale il: «prima provo e poi capisco», mentre spesso noi ci muoviamo con i giovani ancora con il: «prima devi capire e poi puoi provare». Alla fine siamo andati e Lucia, prima di ri-partire da Roma, mi ha detto: «Prof. rimarrei qua, sul serio». «Ti è piaciuto?» «Insomma, piaciuto è una parola grossa, ma qui sono davanti alla realtà vera, e ho scoperto un po’ meglio chi sono, che posso anche non fuggire davanti a quello che trovo dentro di me».
È solo un esempio, e non tutti i giovani, certo, reagiscono così. Ma è sintomatico che moltissimi di quella classe abbiano mostrato segnali di una reazione che va nella stessa direzione. E che mi ha imposto qualche riflessione, e soprattutto qualche confronto con Christus Vivit (CV), l’esortazione post sinodale di papa Francesco dedicata proprio ai giovani e al loro rapporto con la fede.

 Non è sempre la gioia

Innanzitutto non è per nulla vero che solo esperienze di gioia possano muovere il cuore dei giovani di oggi. La CV utilizza 38 volte questa espressione (mentre, ad esempio, la parola vangelo compare solo 27 volte) e lascia trapelare l’idea che solo da una esperienza gioiosa (ad es. il n.214) il giovane possa essere attratto alla verità e al senso bello della vita che Cristo ci ha regalato. Lucia non parla di gioia, ma di una esperienza che l’ha messa davanti a sé stessa anche con fatica, ma che proprio per questo l’ha interessata. Come lei, molti altri si lasciano intercettare non tanto da ciò che muove solo le emozioni, ma che ha sapore di vero anche se duro, che certamente muove il cuore, ma non necessariamente lo rassicura. Sono abbastanza “sgamati” i giovani di questa generazione per percepire che consolazioni facili e veloci non sono autentiche e spesso sono specchietti per allodole.
Questo, allora, ci indica come la distanza tra come noi percepiamo i giovani e come loro si raccontano è quasi abissale, soprattutto per chi pensa che il cuore dei giovani sia “terra di missione”. Un bel testo di CV invece ribalta la prospettiva. Il cuore dei giovani è «terra sacra, portatore di semi di vita divina e davanti al quale dobbiamo toglierci i sandali» (n. 67). In altre parole, non siamo tanto noi a dover parlare loro di Dio, ma sono loro che ci parlano di come Dio oggi si muova nel loro cuore e ci anticipi. Sono un luogo teologico, in cui Dio si rivela nel suo modo di continuare a dirigere questa storia che invece, spesso, a noi sembra sfuggita alle Sue mani.
Se partiamo da qui, allora la prospettiva pastorale di fondo cambia parecchio. Agli operatori viene chiesto non tanto di provare a portare i giovani dentro agli spazi già definiti dei percorsi e dei luoghi soliti, ma di entrare nei loro spazi e linguaggi, accostandoli col desiderio di ascoltarli e provare a comprenderli sul piano umano, affinché un incontro autentico sia possibile. Qui però dobbiamo essere onesti: la dose di flessibilità e di audacia richiesta per questo tipo di atteggiamento pastorale è davvero merce rara, per ora, in molti operatori, soprattutto adulti.
Whatsapp, TikTok, Youtube, e gli altri “luoghi” di incontro virtuale sono da pensare e vivere come veri luoghi relazionali, benché parziali, in cui il come viene prima del cosa, e il condividere prima dell’imparare. Luoghi perciò in cui è possibile un incontro con Cristo, attraverso l’incontro con l’altro, prima che un incontro con le Sue idee, o le idee della Chiesa su di Lui. Incontro che non è progettato e cadenzato già fin dall’inizio, ma resta assolutamente occasionale e spontaneo, all’interno delle possibilità che questi luoghi già di per sé offrono.

 Evangelizzator giovane

Nella stessa logica dell’incontro spontaneo, giocato sul piano umano, va vista anche la possibilità che il giovane stesso divenga evangelizzatore dei suoi coetanei, come CV indica la n. 210. Se all’inizio c’è un incontro che rimette il giovane davanti a sé stesso, anche con durezza, anche smascherandolo, stanandolo, e lo smuove dalla sua “difesa” in cui, spesso, si arrocca, una volta che egli si sia lasciato affascinare dalla possibile verità di sé stesso, allora diverrà naturale che lui stesso venga percepito, da altri suoi amici, come “via attraente” per avvicinare Cristo.
L’evangelizzatore, nel mondo giovanile (ma forse non solo lì), può essere efficace se si muove per la sovrabbondanza di bellezza che vive dentro di sé, stando con Cristo. Oggi questo è assolutamente indispensabile, se vogliamo essere capaci di “attrazione”. Molto spesso infatti, i giovani con cui abbiamo a che fare sono ancora post-cristiani: hanno già sentito parlare di Cristo, ma in modo tale da averlo percepito come non attraente e non liberante. Questo fa sì che non si possa semplicemente pensare di offrire il primo annuncio della fede, ma un secondo annuncio, che sia capace di ribaltare la percezione non positiva che il primo ha prodotto.
Ecco perché Castegnaro scrive che la fede «è sempre meno descrivibile nei termini di una adesione razionale a un insieme di credenze ben definite e sempre più si manifesta come desiderio di una esperienza diretta di relazione che sia capace di produrre coinvolgimento e sentimento, anche in forme che possono essere teologicamente poco elaborate e per certi aspetti non del tutto razionalizzabili. Le esperienze vitali attraggono assai più dei catechismi. E si scorge, oggi, una tendenza sotterranea a passare dal credere in Dio al credere nel mistero di Dio, dalla dogmatica alla mistica, dalla teologia alla poesia».

 Dell’Autore segnaliamo
Gli adolescenti mi hanno salvato.
Diventare adulti educando i giovanissimi
San Paolo Edizioni, Cinisello Balsamo 2019