Forte e fragile, come la vita è

Il travaglio e il parto nella fotografia di artiste contemporanee

 di Francesca Marani
Fotoreporter, giornalista

 La prima volta che ho visto l’opera “My Birth” di Carmen Winant al MoMA di New York, in occasione della mostra collettiva “Being.

New Photography 2018”, sono rimasta colpita. Il lavoro si componeva di oltre 2000 foto di donne in travaglio o ritratte nell’atto di partorire, appese una accanto all’altra in modo da coprire le due pareti di un corridoio. Erano immagini ritagliate da libri, pamphlets e magazine nati, in molti dei casi, per informare e rendere consapevoli le donne sul proprio corpo.
Le foto che stavo guardando esercitavano un fascino irresistibile: erano violente, ancestrali, potenti. Mi sono ritrovata a chiedermi come mai fossi così toccata da quelle visioni, dopotutto si trattava di visualizzare un momento, quello della nascita, che, per quanto straordinario e misterioso, appartiene a tutti noi. Perché quelle immagini risuonavano così intensamente?

 La gloria e il dolore

Una risposta potrebbe riguardare la rarità di tali “apparizioni”: la storia dell’arte presenta esempi di donne incinte o madri col proprio neonato in braccio, ma sembra mancare di rappresentazioni dell’atto fisico in sé forse perché considerato un fatto privato, una questione prettamente femminile, un atto troppo brutale per esser preso in considerazione nella sua cruda realtà. Non siamo abituati a confrontarci con fotografie che ritraggono la fatica e il dolore del parto, con immagini complesse capaci di trasmettere l’incredibile forza e, al tempo stesso, la vulnerabilità che solo le donne possono sperimentare.
É l’artista stessa a suggerire questa interpretazione: «Non avevo visto molte immagini nella mia vita di donne che partoriscono, ed è un atto politico farsi fotografare in questo modo, il che fa parte del punto. È difficile vedere quell’immagine più e più volte ed essa non riesce a descrivere l’esperienza corporea. Quindi, sono interessata a come quel tipo di fotografia possa avere tutti questi impatti simultanei».
Dopo aver partorito per la prima volta, Carmen Winant ha deciso di indagare visivamente l’esperienza del travaglio, il dolore fisico che si scioglie di fronte alla visione del bambino appena nato, le particolarissime sensazioni corporee vissute in quel frangente, pur consapevole dell’impossibilità delle immagini di “parlare” in maniera esaustiva.

 Birth, la nascita

La Winant non è l’unica artista contemporanea ad aver preso in considerazione il tema della maternità, e tutte le implicazioni sulla sua rappresentazione, imprimendo la sua visione di donna su di un argomento da sempre legato all’identità femminile. Una dimostrazione del fatto che tante sono le storie che devono essere ancora raccontate sull’argomento. Esattamente come sottolinea l’esposizione “Birth” (a cura di Charlotte Jansen - tenutasi alla fine del 2019 presso la galleria TJ Boulting di Londra) una collettiva dedicata al tema della nascita «in tutta la sua esplicita, fisica, estenuante, trasformativa e trasgressiva gloria».
Tra le artiste in mostra vi era anche Andi Galdi Vinko, fotografa di origine ungherese, che attraverso la serie fotografica “Sorry I gave birth I disappeared but now I’m back” riflette sulla maternità a partire dalla propria esperienza personale. Nel suo lavoro s’intrecciano foto di donne incinte, per lo più amiche, ritratti del compagno col loro primogenito, donne esauste che allattano al seno, bimbi nei primi anni di vita e immagini di corpi femminili in trasformazione. L’intento è quello di mostrare nel modo più onesto possibile gli sconvolgimenti che l’arrivo di un neonato porta con sé, specialmente nella vita della madre. Il dolore che si sperimenta al momento del parto è solo il preludio di ciò che attende una famiglia e soprattutto una mamma.
La narrazione visiva di Andi Galdi Vinko, tenera e cruda allo stesso tempo, mette in scena le ambivalenze della maternità e mostra in maniera inedita le sfide che una neomamma si trova ad affrontare, spesso da sola per via dell’allentamento dei legami famigliari a cui stiamo assistendo nelle ultime decadi. Guardare queste foto può essere disturbante ma anche estremamente confortante, perché l’osservatore ha la possibilità di familiarizzare con fotografie forse mai viste prima, di confrontarsi con un racconto realistico che mette al centro la vulnerabilità, l’espressione umana in tutte le sue sfaccettature al riparo da visioni idealizzate e stereotipate.