Amore e patatràc

Attraverso le nostre cadute Dio completa le imperfezioni che ci costituiscono

 di Fabrizio Zaccarini
della Redazione di MC

 Una volta tanto vorrei iniziare giocando e così chiedo: se l’essere umano fosse un verbo, che verbo sarebbe?

Ed ecco, subito, la più simpatica delle forme verbali mi viene incontro. Il gerundio, compatibile con ogni persona e con ogni tempo. Con il presente nella sua forma base: camminando; con il passato, grazie all’aiuto dell’ausiliare: avendo camminato; con l’aiuto del verbo stare si concede qualche limitata escursione nel futuro: starò camminando. Radicati nel passato, a caccia di un presente che subito ci sfugge, impegnati ad immaginare quel futuro che non ci appartiene, noi essere umani siamo come il gerundio.
Mai davvero compiuti, sempre in evoluzione fino all’ultimo respiro, siamo un cantiere aperto che non smette di chiedere ulteriori interventi. Noi, work in progress per eccellenza, siamo così, imperfetti per natura. Perfectus, da cui l’italiano perfetto, è il participio passato del latino perficio e significa concluso, compiuto, perciò la perfezione non è per noi. Più di qualsiasi meta il viaggio è casa nostra. I latini, con il loro homo viator, mostravano di saperlo bene e i cristiani, illuminati dalla fede, confermavano la sapienza pagana, definendosi quelli della via.

 In caduta libera

E allora perché Gesù dice: «siate perfetti come perfetto è il Padre vostro» (Mt 5,48)? La liturgista Giuliva di Berardino spiega: «l’espressione “siate perfetti” significa “lasciatevi completare” da Dio. Si tratta dunque di un invito di Gesù a lasciarci amare ancora di più da Dio, affinché il suo Amore “sia completato” in noi e attraverso di noi. Per realizzare questo processo di completamento, però, è necessario che ciascuno di noi si faccia riempire di potenza e di vita, cioè di Spirito Santo. Si racconta che un giorno Santa Caterina da Siena, patrona d’Italia, vide Gesù che le disse: «Caterina, tu fatti capacità e Io mi farò torrente». La mia pienezza, dunque, può iniziare a realizzarsi quando, svuotato di me stesso, mi affido all’azione vivificante di Dio. Aggiungo al passo di Matteo quello parallelo di Luca, dove le parole di Gesù suonano così: «siate misericordiosi come il Padre vostro è misericordioso» (Lc 6,36). Risultato: avrò conferma che la divino-umanità di Cristo si sta compiendo anche in me, quando il mio sguardo misericordioso abbraccerà l’uomo, la donna, che stanno di fronte a me, senza che il peccato che quella persona porta con sé possa impedirmelo.
«Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto» (Zc 12,10). E per vedere cosa? La fonte di quello sguardo misericordioso è nella sconcertante follia di un Dio che non fa trincee a protezione della propria divina perfezione. Per lasciarsi sbilanciare dal Dio che spinto dal suo amore non sta in equilibrio e cade dal suo trono. Cade nascendo per strada tra paglia e sporcizia di una stalla. Cade fino agli arnesi di una bottega e al sudore e ai calli di un falegname. E ancora cade fino al patibolo di un Dio che muore tra ladroni, abbandonato dai suoi, abbandonato da Dio stesso. Dio manifesta perfettamente, cioè pienamente, il suo amore, scendendo senza condizioni, nella più radicale e aberrante imperfezione dell’uomo.

 Il dramma della performance

Tutto ciò è di straordinaria importanza oggi, visto che, finita la società dello spettacolo in cui la tv da padrona ci aveva trasformato da lavoratori in consumatori, ora, con l’avvento dei social, noi siamo nella società della performance in cui ognuno è produttore di (e giudice delle altrui) performance. Diverse le conseguenze. Intanto, l’imperativo categorico con il quale ci troviamo quotidianamente a fare i conti è un mito bifronte che impone a tutti per tutto il tempo 360° gradi di bellezza e di successo. Ed ecco che il cavallo di Troia ha fatto crollare le mura della tua città. I criteri della bellezza e di successo sono tutti nelle mani di quel pubblico da cui desidero ricevere approvazione e conferme. E così sono loro e non io a decidere chi voglio essere. Poi la logica della performance divora il confine che separava pubblico e privato. La tua vita, tutta la tua vita, lavoro, affetti, alimentazione, viaggi tutto può accumulare like, tutto può diventare performance. Tutto avrà senso solo se diventerà performance apprezzata, intimità affettiva compresa, con le conseguenze tragiche che conosciamo (qualcuno si ricorda forse di Tiziana Cantone).
Detti in modo estremo, come del resto la sintesi impone qui, questi i rischi che la comunicazione on line comporta. Dobbiamo dunque buttare smartphone e pc? Non sarebbe una buona soluzione: troppe opportunità andrebbero perdute (questa analisi, che devo a Maura Gancitano, io l’ho incrociata su Facebook ad esempio) e la piazza digitale resterebbe priva di evangelizzatori. Credo che il correttivo giusto ce lo insegni Dio stesso che non subisce passivamente i nostri criteri estetici. Accetta di usare i nostri mezzi comunicativi, a cominciare dalla parola, ma non perde un briciolo della sua libertà. Anche noi siamo chiamati a fare discernimento per continuare a distinguere ciò che è pubblico da ciò che è privato, per non cedere alla logica dell’accumulo dei like perché nessuno possa scipparci il diritto di continuare a cercare liberamente e creativamente bellezza e successo (inteso come efficacia comunicativa). Non dimentichiamo che noi cristiani siamo stati salvati da un uomo fallito che «non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi» (Is 53,2).

 La verità in un bambino

Vale la pena mettersi in ascolto della tradizione spirituale orientale che spesso sa essere molto illuminante (ancora una volta da Facebook, senza aver capito chi sia esattamente il protagonista del racconto). «Un novizio interrogò Padre Anatolij: “Padre mio, cosa provasti nel giorno della tua ordinazione?” Il vecchio monaco rispose: “Figlio mio, prostrato dinanzi all’altare, sentii tutta la mia fragilità, il peso della mia miseria. Avrei voluto lasciare tutto. Mentre ero lì, disteso a terra, mi si avvicinò un bambino che strattonandomi il braccio diceva: ‘Sei caduto? Ti sei fatto male? Alzati!’. Tutti risero tranne me. Si era intenerito il cuore di qualcuno per quella mia fragilità e il mio dolore non era passato inosservato. Compresi, allora, che il senso della mia chiamata non era nelle impossibili perfezioni che mi ero prefisso, ma nel mettere a nudo la mia pochezza, certo che qualcuno si sarebbe chinato sulla mia caducità. Non mi conformavo a Cristo nelle sue perfezioni, ma nel suo abbassarsi; né sposavo una chiesa trionfante, bensì una chiesa bambina dal cuore tenero, che in quell’istante non vedeva altro che un uomo caduto cui serviva una mano per rialzarsi. Figlio mio, ormai sono vecchio, ma sto ancora cercando di rialzarmi”. Il giovane gli disse porgendogli il braccio: “Poggiati, padre mio, rientriamo in casa”».
Dio ama gli uomini. Anche, e soprattutto, quelli che sono caduti e non riescono a rialzarsi. L’Emanuele, il Dio con noi, per amarci, non aspetta che noi ci rialziamo, preferisce cadere e cadere sempre più giù, fino a dove noi siamo. È per questo che l’amore, l’amore di Dio, l’amore del prossimo, non è impossibile. Non c’è nessun bisogno di uscire dall’imperfezione del gerundio: contemplando Dio caduto per amore, camminando e cadendo dietro a lui, impariamo ad amare. Cioè a cadere per amore!