Africa, my darling

Chi lascia la sciatica, non sa il virus che trova

 di Antonino Serventini
missionario cappuccino in Centrafrica

 

“Ben venga sorella vita”

Eravamo abituati ai virus e a sentire parlare di virus. Erano e sono quelli del nostro computer.

Ma quando i virus sono usciti dalla tastiera e ci hanno invaso le dita, le mani, i muscoli, gli occhi e gli orecchi e persino i polmoni, speravamo di potercene liberare con un qualsiasi antivirus gratuito o a pagamento. Ma no. Questo virus, il coronavirus, non sappiamo da dove venga e dove vada e a chi si trasmette. Terribile.
Io, che sono scappato da Bossangoa nella Repubblica Centrafricana per curarmi una gamba da un’acuta, lancinante, persistente sciatalgia, sono caduto con tutte e due le gambe nello stagno nauseabondo del Covid-19. Caduto dalla pentola alla brace.
E sono qui. Impotente e tuttavia privilegiato, perché posso avere mascherine, guanti, cibo quotidiano, libri, tempi lunghi di preghiera, lavoro da inserviente, come un servetto sconosciuto e ancor più servitore inutile. Mi è stato consigliato di dire: “Ben venga sorella vita!”. Sono privilegiato anche perché ho dei cortili e dei prati spaziosi e assolati per distendermi e curarmi dentro e fuori.
E il computer pure può continuare a navigare intrepido nei mari infestati da notizie sconsolanti. E sale il fumo dei tanti forni crematori che mi fanno pensare ad altri forni, dai quali sono stati liberati i nostri nonni e padri, mamme, lavoratori, dottori, infermieri, volontari, operatori sanitari ignoti… Ventiseimila… cinquantamila… bare e fosse comuni… io qui, davanti al mio computer; e loro là, a lottare e morire, “vittime di carità verso gli appestati”.

 Già troppe corone

Questa non è epoca di cambiamenti ma cambiamento di un’epoca” ci ha detto papa Francesco. Sì, un’epoca in cui i conventi stessi sono diventati dei lazzaretti dove c’è il reparto “frati sani” e quello “frati infetti”, tutti in guanti e museruola. Cambiamento d’epoca, in cui io sono scappato dalla pentola di un mal di gamba per cadere nella brace del coronavirus, con la speranza di risalire in pentola per restare in mezzo a un popolo che di corone di spine ne ha viste da sempre. Parlo degli africani di Bossangoa, Gofo, Kabo, Batangafo, Bouca, Bangui, Bouar, dove fra Antonio Triani resiste insieme ai cappuccini del Ciad e del Centrafrica, nella sua “tenda da campo”, l’Ospedale di Wantigara, con i malati di malaria, TBC, bilharziosi, con le suore di Pontremoli, le Suore del “Lieto Messaggio”.
Cambiamento di epoca dove molte industrie hanno “convertito” la loro produzione per far fronte al coronavirus, salvo un’industria - peccato! - quella di produzione di armi. Perché a Batangafo i ribelli continuano ancora a comprare armi provenienti anche dall’Europa infetta.
Quando l’anno scorso parlavo di guerra e pace in Centrafrica (cfr. MC 4/2019, p. 36-38), terminavo scrivendo: «La pace? Roba da bambini!», facendo allusione alla preghiera del rosario e alla penitenza.
Sì, anche per questa guerra continuo ad arruolarmi in mezzo a milioni e milioni di bambini. Con la corona in mano, e la penitenza umile e lieta per confermare i vivi e i redivivi nella fede. Anche se ho paura. Paura di che? Di dimenticare. Di dimenticare come molti dei miei padri che si sono scordati della liberazione da una guerra e ne hanno prodotto una più letale. Di dimenticare Vignola, mia Arca di salvezza, e la terapista della mia gamba storta. E sarò preso dal “fare” il Rettore del Santuario mariano Notre Dame de l’Ouham, dal “fare” il Segretario diocesano delle vocazioni, dal “fare” il Delegato dei religiosi sul territorio della diocesi di Bossangoa.
Spero che la corona - quella del virus e ancora di più quella del rosario - tenga viva in me la memoria di quanto sta accadendo e di quanto ci sta insegnando.