“In missione”, al tempo del coronavirus, ospita due racconti missionari: il primo parla dell’esperienza di una giovane volontaria per cinque mesi nella missione del Dawro Konta, in Etiopia, mentre nel secondo fra Antonino esprime le sensazioni di un missionario partito dal Centrafrica per curare una gamba e finito con tutte e due dalla pentola alla brace della pandemia.

a cura di Saverio Orselli 

Se la missione è un mixer

La diversità dell’altro, il cambiamento dentro di me 

di Franca Mirabito
volontaria missionaria

 Da quanto tempo non so

A essere sinceri, non so bene da quanto tempo avessi nel cuore questo desiderio della missione, però ricordo bene alcuni eventi che mi hanno fatto scoprire e concretizzare questo sogno.

Innanzitutto ha avuto grande importanza l’esperienza di servizio civile al Centro d’Ascolto Diocesano, dove ho avuto l’opportunità di conoscere persone bellissime, che hanno orientato la loro vita nel prendersi cura del prossimo, non solo come lavoro, ma dedicandosi con amore al servizio dei poveri. Poi il Centro Missionario, con cui sono cresciuta, insieme alla grande fede che ho sperimentato nella mia famiglia affidataria: qui ho imparato il valore di aprire la propria casa a persone bisognose, facendole sentire a casa e amate. Non meno importante il mio gruppo di amicizie, i legami con la realtà dei frati e del Centro Missionario e le esperienze dei vari campi di missione: Romania, Turchia, Centrafrica. Aggiungo fra Matteo e fra Valentino, che nel 2018 mi proposero di andare a Roma, con un gruppo di amici, a un convegno intitolato “Sulla Tua Parola”, per animatori missionari. E, per finire, papa Francesco, che nel 2019, in occasione del mese missionario straordinario, suggerì il tema “Battezzati e inviati”.

 

Dopo la preparazione la proposta

Così, dopo quasi un anno di preparazione, è arrivata la proposta dell’Etiopia. Il 15 ottobre 2019, a messa, ho ricevuto il mandato missionario e il 28 ottobre sono partita alla volta della missione dei frati cappuccini del Dawro Konta, nel paesino di Gassa Chare a 2400 metri di altitudine, un posto davvero meraviglioso, dove ho avuto occasione di fare una bellissima esperienza di ben cinque mesi.
Il cammino di preparazione è stato altalenante e burrascoso. La mia speranza era di andare in Madagascar, ma purtroppo non è stato possibile, così, con fra Matteo, a cui avevo chiesto di seguirmi in questo cammino, ci siamo messi al lavoro per cercare una missione che mi potesse accogliere. Esclusa la missione in Centrafrica, dove la situazione è troppo pericolosa, mi è stata proposta l’Etiopia, dove abbiamo capito che la cosa era fattibile, così abbiamo realizzato un progetto di lavoro insieme ai frati e le suore del Dawro.
L’impatto è stato indubbiamente forte, un vero e proprio mix di emozioni. Le mie prime sensazioni sono state di stupore per tutto quello che stavo vedendo. Credevo di essere in un sogno: durante il viaggio in jeep, anche se ero distrutta dalla stanchezza del volo e del fuso orario, ero sbalordita per i colori della terra che cambiava dal beige a un rosso che faceva contrasto con il cielo azzurrissimo, su strade un po’ asfaltate e un po’ sterrate, piene di buche immense, con l’autista che sfrecciava in uno slalom fra le buche e gli animali, che sembravano padroni della strada. Guardando fuori dal finestrino ero emozionata e ammiravo i villaggi, le capanne circolari, gli alberi immensi con le grandi ramificazioni verdi: che spettacolo!

 Galline sottobraccio e bambini adulti

Ero sorpresa di vedere le persone sul ciglio della strada che portavano le loro galline sotto il braccio, come fossero pochette, e poi mucche, capre, pecore e asini legati a un ciuffo d’erba con una corda di finto banano, tre o quattro persone su una moto e tanto altro: una realtà così diversa da quella in cui sono cresciuta La prima cosa che ho notato e tuttora porto nel cuore è lo sguardo adulto dei bambini: vissuto, stanco, intrappolato in questi corpicini; mi veniva da paragonarli ai bimbi europei, pensando a quanto siano fortunati nel non doversi preoccupare di crescere prima del tempo, senza dover aiutare i genitori nel portare a casa i soldi per mangiare. È stato molto commovente vedere i bambini, già all’età di quattro anni, andare da soli a portare il bestiame, a prendere l’acqua, o vedere i più grandi accudire e prendersi cura dei più piccoli in modo responsabile.
Un’altra cosa che mi ha colpito è stata la percezione del tempo: sì, sono sempre 24 ore, ma noi europei siamo abituati a correre e, anche se le ore sono le stesse, ne vorremmo sempre di più, mentre in Etiopia il tempo sembra infinito e, anche se facevo tante cose, me ne rimaneva comunque tanto, con tanto “silenzio”. Questo all’inizio un po’ mi ha spaventata, non abituata a lunghi tempi che mi obbligavano a lavorare su di me e sulle mie emozioni, così le prime settimane sono state difficili e mi hanno messa a dura prova. Alla fine però è stato proprio questo tempo silenzioso a farmi apprezzare e valorizzare le piccole cose, quelle vere.
Dal punto di vista pratico le mie mansioni al mattino erano di andare all’asilo delle suore e in ufficio con la superiora del convento di Gassa Chare, per aiutarla a gestire i rapporti con i volontari e le adozioni a distanza con gli italiani. Nel pomeriggio seguivo e aiutavo abba Renzo. Ho anche aiutato dentisti e medici volontari italiani e affiancato i gruppi di volontari che venivano a fare un’esperienza di missione per un breve periodo.
Mi sono sempre chiesta perché avessi il desiderio di andare in missione, o comunque di fare un’esperienza missionaria per un lungo periodo e ancora non so bene cosa rispondere, ma posso dire cosa ho trovato in questa esperienza. Sicuramente mi ha cambiata, mi ha fatto uscire dal mio orticello, dal mio io, dal benessere e dalla tecnologia, dalla pigrizia e dalle mie paure e incertezze, facendomi conoscere cose nuove, anche dentro di me.

 Tutto, ma il cuore intero non è

Quest’esperienza mi ha fatto cambiare il modo di vedere le persone, imparando a conoscerle senza giudicarle. Un esempio e un consiglio - se mai qualcuno vorrà fare un’esperienza di missione - è di non avere la presunzione di partire col pensiero di cambiare “il loro mondo”, ma di abbracciare invece lo stile di vita e la cultura di chi si incontra. È importante imparare a conoscere la nuova realtà, senza cercare di imporre la propria, perché non è detto da nessuna parte che ciò che è giusto per noi, lo sia anche per gli altri.
Osservare le persone che si ha l’occasione di incontrare, dialogare con loro, conoscerne la realtà e tenere sempre presente che alla fine il volontario torna a casa e non rimane là, a meno che non si decida di rimanere e vivere da missionario! Il mio consiglio è di abbracciare la realtà del paese in cui si fa l’esperienza, scoprendo che la semplicità, lo stare assieme e il tempo che si dedica a se stessi e agli altri è un tempo vero e di vera felicità, anche se vissuto in povertà.
Cosa mi sono portata a casa? Credo tutto, partendo dai momenti più difficili, perché penso che mi abbiano resa più forte: le fatiche, le ingiustizie che ho visto, le sofferenze della povertà in cui vivevamo, riscoprire il vero significato della semplicità e dei piccoli gesti fatti con amore. E poi i luoghi che ho visitato, i colori, i profumi e le spezie, gli animali, il cielo, le esperienze fatte, tutti i sentimenti provati, le persone, le loro storie, le amicizie che sono nate. Come ho detto, mi sono portata a casa proprio tutto. Lì ho davvero lasciato una parte del mio cuore.