Vendicare è un’azione incivile e mai politica. Non è mai un diritto. Il carcere è spesso percepito, da entrambe le parti, come vendetta. Rivendicare un diritto è un’azione civile e politica ed è un diritto che si assume dei doveri. Verbo coniugato troppo spesso per necessità al femminile. Conoscere i propri diritti è un diritto. Riconoscere la dignità e i diritti altrui è un dovere. Umano e civile. Maschile e femminile.

a cura della Redazione di “Ne vale la pena”

 

 Quello che le donne rivendicano

Il riconoscimento di un diritto è il profumo della civiltà

DIETRO LE SBARRE

Il lavoro è un bisogno

Noi donne, abituate a lavorare sempre, fuori e poi in casa e poi con i figli, ventiquattrore in “servizio permanente” tranne quando dormiamo (e anche allora, se i figli sono piccoli),

qui dentro senza un impegno e un interesse forte rischiamo di impazzire o di adagiarci nell’ozio con tutte le conseguenze che ne possono derivare: sonnolenza, terapia, chiacchiere, depressioni o eccitazioni, proprio dovute alla rottura con i nostri affetti e le nostre abitudini. Senza un lavoro allora rimarremmo, probabilmente, a commiserarci e compiangerci.
Il lavoro in carcere è indispensabile per trovare slancio, per superare, o almeno dimenticare un po’, la sofferenza, e ti aiuta a scavare nel tuo cuore e a scoprire che quello che ti procura dolore può insegnarti ad apprezzare di più la gioia, e a darti una maggiore forza d’animo. Ed è un po’, per usare un’immagine una volta tanto “romantica”, come per l’ostrica: nonostante il dolore che le procura un granello di sabbia o una pietruzza che le entra dentro e la ferisce, lei probabilmente non piange, non si dispera. Giorno dopo giorno trasforma il suo dolore in una perla.

“Ristretti Orizzonti” (Padova)

 Una storia di donne

La storia ufficiale, quella che si studia sui libri di scuola, è da sempre la storia degli “uomini”, molto meno delle donne. Relegate per millenni ai margini della vita pubblica, le grandi ma rare figure femminili che sono riuscite ad imporsi nella storia ufficiale erano sempre singole donne a cui la sorte, oltre che l’intelligenza, aveva dato di trovarsi al posto giusto nel momento giusto.
Bisogna aspettare la metà dell’Ottocento prima che nella storia irrompa il primo grande movimento femminile. Un movimento di donne per le donne, un movimento interclassista (donne di diverse estrazioni sociali lottavano fianco a fianco per raggiungere lo stesso scopo) con un obiettivo chiaro: il diritto di voto per le donne; il riconoscimento della dignità politica delle donne, dignità che sempre era stata loro negata.
Non è un caso che questo movimento nasca in Inghilterra in quegli anni. Sicuramente il Regno Unito rappresentava, in quel periodo, la nazione più evoluta e moderna anche nelle rivendicazioni sindacali e politiche. L’industrializzazione già avviata da tempo e i problemi sociali, ma anche l’emancipazione, che l’industrializzazione aveva portato con sé, rendevano il Regno Unito l’unico terreno fertile in Europa per la nascita di un movimento politico femminile.
Ed è in questo scenario che si colloca la figura di Emmeline Goulden, conosciuta come Emmeline Pankhurst, vissuta in Inghilterra tra la seconda metà dell’Ottocento e l’inizio Novecento. Fondatrice della “Women’s Social and Political Union” (WSPU) lottò fino all’ultimo giorno della sua vita per la conquista del diritto di voto per le donne.
Emmeline nacque, si può dire con il destino già segnato, in una famiglia molto attenta ai diritti delle donne, e proprio nell’ambiente familiare, grazie soprattutto alla madre, conobbe per la prima volta il mondo delle suffragette, mondo di cui molto rapidamente divenne simbolo e guida, grazie al suo indiscusso carisma.
La violenza di talune delle sue dimostrazioni, che coinvolgevano sempre un largo numero di persone, la portò ad essere arrestata per ben sette volte. La voglia di rivendicazione, tuttavia, non venne rallentata neppure dal carcere. La Pankhurst, infatti, intravide nella reclusione un’occasione ulteriore per far sentire la propria voce e per portare all’attenzione di tutti la questione del suffragio femminile. Per questo, durante alcuni periodi di detenzione, mise in atto, unitamente ad alcune compagne del movimento, diversi scioperi della fame. La paura della risonanza che avrebbe avuto una sua morte da martire portò le istituzioni ad alimentarla forzatamente, con trattamenti definiti poi tortura.
Il carcere, come detto, non fermò la sua battaglia, che continuò fino agli ultimi istanti di vita, senza poter tuttavia assistere alla vittoria finale. Emmeline, infatti, morì il 14 giugno del 1928 a pochi giorni dalla legge che riconobbe il diritto di voto a tutte le donne, emanata dal Parlamento inglese il 2 luglio dello stesso anno.
Oggi ci interroghiamo su quali siano le rivendicazioni delle donne detenute, ci chiediamo cosa gridino quelle urla che lacerano il silenzio che normalmente avvolge le carceri, ma in questo momento di grande difficoltà per tutti, specialmente per il genere femminile, è importante non dimenticare quelle donne che, in un passato che non è poi così lontano, in carcere ci sono finite proprio a causa delle proprie rivendicazioni.
In fin dei conti, quello che chiedevano Emmeline Pankhurst e le sue compagne era “solo” di essere ascoltate: ora come allora, quello che chiedono le donne è di essere prese sul serio.

Cecilia Alessandrini e Francesca Vanelli

 La prima volta

Si dice che la prima volta non si scorda mai. Si dice anche che la prima volta ha la sua importanza. La prima volta in ogni cosa spiana un po’ la strada alle seconde, terze, quarte volte. Ti rende il percorso un po’ più facile. Ecco, vorrei raccontarvi una mia prima volta: era luglio, avevo fatto vent’anni da qualche giorno, e mi accingevo a mettere piede tra le mura penitenziarie del femminile di Bologna. Varcare la soglia della porta era un po’ un battesimo nel mondo carcerario del volontariato. Ma quei giorni caldissimi, climaticamente ed emotivamente, spianarono il mio percorso e lasciarono un segno. Un segno che se potessi tradurre su un foglio bianco sarebbe un “due punti”. I “due punti” si usano per introdurre il discorso diretto, per dare voce, parola. Ti avvertono che c’è qualcuno che vuole parlare. Dopo qualche giorno nella sezione femminile di Bologna, mi portai a casa, tra le tante cose, quel desiderio di quelle donne di voler parlare. Ma non a vuoto. Di voler parlare ed essere ascoltate. E a loro dedico i miei “due punti”. Oggi il voler esprimersi e l’essere ascoltati può sembrare una recriminazione da poco. Basta un video, che in un niente diventa virale. Basta un post, che in poche condivisioni si diffonde a macchia d’olio. Ma le parole, nelle celle, a volte rimbalzano sulle pareti e fanno fatica ad uscire. E in cella, nel silenzio cala il buio, proprio lì dove la luce è sempre accesa, anche di notte. Quando si pretende di essere ascoltati è per porre l’attenzione su una questione, per ricordare. Per dire io ci sono, esisto. Ma le cose sulla terra diventano visibili solo quando gli occhi degli altri ci si poggiano, materialmente o col pensiero. Alle donne della Dozza conosciute in quei giorni dico che i miei occhi spesso si poggiano su quei ricordi e sulle storie che mi hanno raccontato. E a loro va un grazie per essere state la mia bellissima prima volta.

Carla Ianniello