Operazione grandangolo

Lo sguardo inclusivo delle donne, anche nella fede, apre nuovi scorci

 di Assunta Steccanella
teologa, formatrice di catechisti

 La donna gli replicò: «Signore, anche i cagnolini sotto la tavola mangiano le briciole dei figli» (cf. Mc 7,24-30).

Immaginando un volto nel quale specchiarmi per introdurre una riflessione su donne e fede, ho subito pensato a lei, la sirofenicia. È un personaggio piuttosto marginale nei vangeli, alla cui vicenda non veniamo rimandati spesso nella predicazione o nella catechesi. Nel breve racconto, infatti, Gesù non fa una bellissima figura: a livello immediato appare scostante, addirittura antipatico secondo la sensibilità attuale. Certo, è solo la prima impressione, ma ora non si tratta di analizzare la pericope marciana per coglierne tutta la portata teologica e cristologica, per una volta è solo lei che vorrei mettere al centro, lei e il suo sguardo, la sua fede.

 Una fede uguale e diversa

Che cos’ha di speciale la fede di questa donna? È ardita? Ma anche quella del cieco di Gerico lo è (Lc 18,35-43). È forte? Come quella del centurione romano (Lc 7,1-10). È capace di non fermarsi davanti agli ostacoli? Anche il paralitico di Cafarnao e i suoi amici lo fanno (Mc 2,1-12). Che cosa c’è allora di specifico nella sua fede? Niente. Anche per lei, come per ogni donna e uomo della terra, la fede è apertura fiduciosa e totale alla relazione con il Signore, che viene riconosciuto capace di riempire la vita di senso, e quindi di salvarla. Eppure la medesima fede ha in ciascuno qualcosa di personale, e quindi anche nella sirofenicia: la sua fede è specifica non (solo) perché lei è una donna, ma soprattutto perché è la sua fede, colorata di tutte le esperienze che lei ha vissuto e che ne orientano lo sguardo.
È questa - sguardo - una parola centrale: proponendo uno sguardo originale, lei è capace di dischiudere un orizzonte del tutto nuovo anche per Gesù. Usando un paragone cinematografico è come se, alla prospettiva di primo piano, lei opponesse un allargamento di inquadratura. L’attenzione si amplia e, dai volti dei commensali, si apre ad abbracciare tutto l’ambiente domestico: d’un tratto è come se la scena si facesse più vivace, con gli inservienti che vanno avanti e indietro, i bimbi che ridono e i cagnolini che corrono intorno, mangiando ciò che rimane, sotto gli occhi indulgenti dei convitati.

 Vedere i deboli

Lei introduce, nella valutazione delle cose, uno sguardo avvolgente, che vede anche ciò che accade ai margini. Mi sono chiesta spesso da dove provenga, nelle donne, questa diffusa propensione a guardare in modo altro. La incontriamo spesso, non solo nel Vangelo, ritorna nelle storie passate e presenti di molte protagoniste della fede e della storia. Ne abbiamo avuto conferma nei giorni della pandemia, quando in tutto il mondo sono state tre leaders politiche, la neozelandese Jacinta Arden, la norvegese Emma Solberg e la danese Mette Frederiksen, che si sono preoccupate di rivolgere la parola direttamente ai bambini dei loro paesi, ponendosi in ascolto e cercando di offrire loro delle risposte che potessero rassicurarli. Eppure i bambini sono una categoria che ha sofferto moltissimo per le limitazioni imposte a tutela della salute, senza tuttavia che la maggioranza dei leaders mondiali li considerasse interlocutori adeguati.
Tre donne invece, ricche di uno sguardo diverso, li hanno visti fin da subito, considerati, si sono poste in dialogo dischiudendo così una prospettiva nuova, adottata alcuni giorni dopo anche dal canadese Justin Trudeau. C’è qualche cosa di ancestrale in questa propensione verso i deboli, che forse ha anche una radice biologica. Senza entrare in analisi che qui non si possono sviluppare, è sufficiente rinviare al differente processo di maturazione sessuale maschile e femminile: un maschio si accorge di non essere più bambino attraverso un’esperienza di vitalità e piacere, che instilla un senso di forza e potenza; una femmina si accorge di non essere più bambina con il menarca, che introduce nella sua storia dolore e limite; lei lo sperimenterà ciclicamente, nella propria carne, per la maggior parte della vita adulta. Questo contribuisce forse a promuoverne la sensibilità per la dimensione della debolezza, del margine, che la consuetudine esclusiva con la forza e il potere tende a far dimenticare? Non si tratta, qui, di fare del biologismo affermando che questo sia vero in modo deterministico, e per tutte, ma di cogliere una sfumatura nel sentire che, in forme e modi personali, ritorna continuamente. Non può essere un caso, per esempio, che il filone di riflessione denominato etica della cura - che si muove decisamente in prospettiva relazionale - sia emblematico del contributo del pensiero delle donne alla bioetica.

 Serve pensare insieme

È di questo sguardo differente che siamo debitrici verso la Chiesa. Io non credo, infatti, che oggi le rivendicazioni di una fede al femminile riguardino principalmente la richiesta di riconoscimento di pari dignità rispetto all’uomo, soprattutto dopo il (tardivo ma prezioso) dettato di Mulieris dignitatem 6: «ambedue sono esseri umani, in egual grado l'uomo e la donna, ambedue creati a immagine di Dio». Credo però che sia necessario un lavoro articolato per combattere le diverse misoginie (e misandrie di rimbalzo) che segnano le nostre esperienze ecclesiali, affinché queste parole, antiche come la nostra fede ma ancora tanto estranee alla nostra cultura (non solo religiosa), divengano patrimonio del sentire di tutti,
In chi confidare per un tale lavoro? Come donna, confesso che le mie attese non sono rivolte al mondo maschile. Sono consapevole di non avere alcun potere diretto di trasformazione sull’immaginario maschile, il lavoro di ripensamento della maschilità è ancora agli albori, ma va assunto dai maschi stessi come compito fondamentale, per originare nuove relazioni.
La mia rivendicazione per una fede declinata anche al femminile è invece rivolta alle donne. É nostra responsabilità farci presenti e prendere parola, abitando consapevolmente e attivamente gli spazi, come e dove possiamo, a partire dalla vita concreta delle piccole comunità locali; è nostra responsabilità introdurvi la nostra sensibilità e le nostre competenze, non incasellabili in categorie specifiche, ma comunque altre, per motivi storici, culturali, biologici. Senza la voce delle donne, senza lo sguardo delle donne, l’evangelizzazione è monca, e la trasmissione della fede a forte rischio: in un’epoca di enormi trasformazioni, lo sguardo delle donne è prezioso per allargare l’inquadratura, dischiudendo prospettive inedite, strade nuove e modalità inclusive.
Perché questo possa avvenire è indispensabile però una profonda conversione pastorale, richiesta a uomini e donne, ministri ordinati, religiosi e religiose, laici e laiche. È la conversione alla sinodalità, non riducibile a un generico ‘camminare insieme’, ma che significa disporsi ad agire e soprattutto pensare insieme. L’eventuale riformulazione di ruoli, poteri, ministeri non è la cosa principale e, io credo, verrà solo dopo.

 

 

 

Dell’Autrice segnaliamo:
Alla scuola del Concilio per leggere i “segni dei tempi”
Edizioni Messaggero Padova, Padova 2014