Il mio regno per un bazooka

Breve storia della disparità di salario, per capire come “sfondare” le ultime barriere

 di Vera Negri Zamagni
storica dell’economia

 Le donne hanno sempre lavorato, e anche duramente, ma la loro attività primaria di generazione e cura dei figli e il loro “confinamento” nelle case non hanno favorito né la continuità di applicazione e nemmeno l’accesso alle professioni più prestigiose, con numerose eccezioni.

L’imperatrice asburgica Maria Teresa governò per 40 anni (1740-1780) un impero, con grandi capacità e nel frattempo diede alla luce 16 figli. Santa Ildegarda di Bingen (1098-1179), proclamata dottore della Chiesa nel 2012 per i suoi studi filosofico-teologici, di medicina e scienze naturali, fu una suora benedettina fondatrice di monasteri femminili che partecipò a dibattiti pubblici, anche alla presenza di vescovi e persino dell’imperatore dell’epoca. Queste eccezioni, e le tante altre che si potrebbero citare, da un lato mostrano che sostanzialmente non c’era alcuna attività che risultasse impossibile alle donne, ma dall’altro lato che l’attivazione dei talenti femminili su larga scala si scontrava con limiti che definirei “oggettivi”: la gran parte dei lavori erano troppo pesanti per il fisico femminile, già sfiancato dalle gravidanze e dalla cura dei figli; guerre e navigazioni non erano alla loro portata; la scarsità di risorse le penalizzava nel campo dell’educazione; la mancanza di libertà non le incentivava ad impegnarsi in campi creativi.

 Una vecchia storia…

È così che la storia del mondo è stata forgiata dal genio maschile. Quando le donne si presentavano sul mercato del lavoro, il che in genere avveniva prima che si sposassero, poiché venivano riconosciuti ai lavoranti generici salari di sussistenza, fu facile sostenere che il salario di una donna valesse circa metà di quello di un maschio, a parità di mansione, perché le donne consumavano di meno ed erano meno “destre” sul lavoro. Questo approccio fu duro a morire; occorse prima che il vincolo delle risorse si allentasse notevolmente, il che avvenne con le rivoluzioni industriali. In primo luogo si dovette riconoscere che l’istruzione andava fornita anche alle femmine, prima a livello elementare, poi superiore e infine liberalizzando la loro ammissione alle Università. Quindi si dovette permettere loro di abbracciare le professioni, una cosa che in Italia avvenne solo nel 1919, però con alcune esclusioni, fra cui la più clamorosa fu quella dall’esercizio della magistratura, che venne eliminata solo a partire dal 1963. Per comprendere come questa legislazione fosse stata stupidamente discriminatoria, si pensi che oggi, mezzo secolo dopo la liberalizzazione, la percentuale di magistrati donna supera il 50%. Ma fu solo con una legge del 1977 che si riconobbe la parità di trattamento salariale tra uomini e donne in tema di assunzioni, retribuzioni a parità di mansione e carriere. Possiamo ritenere che questo iter tardivo e travagliato abbia sanato la storica discriminazione retributiva delle donne?
La risposta non è positiva, la differenza della paga oraria media si attesta ancora oggi nell’Unione Europea attorno al 17%, l’Italia classificandosi questa volta fra i paesi più virtuosi, con una differenza del 5,5% (dati di Eurostat). Si noti che la paga oraria media sconta un retaggio storico che fa pesare la sua eredità anche oggi, ossia che le donne si impiegano in attività spesso a più basso valore aggiunto (segretarie, badanti, commesse, insegnanti, impiegate, operaie nell’industria leggera), occupazioni che spuntano remunerazioni inferiori a quelle di altri comparti e dunque la paga media oraria delle donne risulta inferiore senza venir meno alla legge che impone pari remunerazione per pari mansione.

 Due brutte postille

Ma questa conclusione ha bisogno di numerose qualificazioni, che ne peggiorano di molto la valenza. La prima qualificazione è che nemmeno oggi le donne sono “libere” di lavorare, perché in molte società, e senz’altro in quella italiana, la cura dei figli è ancora ascritta prevalentemente alle donne, le quali si scontrano da un lato con orari di lavoro pensati per un lavoratore senza responsabilità di famiglia e dall’altro lato con offerte di servizi per l’infanzia spesso inadeguati. È così che ancora oggi i tassi di occupazione femminile sono più bassi di quelli maschili, in alcuni casi molto più bassi: a fronte di un gap occupazionale inferiore al 10% nei paesi del Nord Europa, in Germania, Austria e Francia, il gap è in Italia del 20%, con un tasso di occupazione femminile che nel 2016 era del 52%. Il gap si allarga ulteriormente se si considera l’occupazione part time, più alta fra le donne. Il tasso di occupazione Full Time Equivalent, sempre nel 2016 era infatti del 69,3% per gli uomini e del 44,4% per le donne, con una differenza di 25 punti percentuali. Disaggregando i dati italiani per regione, si vede che la scarsa offerta di servizi per l’infanzia in certe regioni è strettamente correlata ad un basso tasso di attività delle donne. Si consideri che per esempio il tasso di occupazione femminile è in Emilia-Romagna del 67% e solo del 31% in Sicilia, mentre l’offerta di posti negli asili (0-2 anni) è del 37% in Emilia-Romagna e del 10% in Sicilia.

La seconda qualificazione ha a che vedere con le mansioni. Abbiamo già visto sopra che spesso le mansioni femminili sono meno remunerative, ma è purtroppo vero che anche quando le donne intraprendono carriere ad alto contenuto di professionalità finiscono per fermarsi a gradini meno avanzati della carriera stessa, non riuscendo a “bucare il soffitto di cristallo”, come spesso si dice, ossia salire ai vertici. Come mai? Poiché i vertici in ogni attività economica sono stati finora occupati dai soggetti che dedicano tutta la loro vita al lavoro, il che ci porta ad un altro problema di fondo delle donne, ossia che spesso preferiscono una vita “bilanciata” tra lavoro e famiglia. La “scelta tragica” tra lavoro e famiglia ha poi anche gli effetti demografici perversi che sono sotto gli occhi di tutti. Le cosiddette “quote rosa” (ossia la riserva di una certa quota di incarichi di vertice alle donne) sono state introdotte per cercare di rompere “il soffitto di cristallo”, e i risultati sono positivi, ma da soli non bastano.

 Cambiamo metodo

Per arrivare ad una effettiva parità occorre dunque cambiare la modalità prevalente di lavoro, eliminandone la pervasività. Questo implica ritmi meno frenetici e l’uso generalizzato dello smart working per evitare i tanti costi aggiuntivi degli spostamenti. Va ricordato che i ritmi forsennati sono generati dalla “frenesia” di guadagnare di più e dunque il problema è legato al capitalismo, che oggi sta dimostrando i suoi gravi limiti e forse per la prima volta sta convincendo molti ad una sua profonda revisione. Quanto allo smart working, era più che altro una barriera psicologica che l’epidemia di coronavirus sta superando. Ho dunque ragione di ritenere che ci saranno ulteriori miglioramenti nella posizione lavorativa e dunque nella remunerazione femminile in futuro, ma le donne devono imparare ad essere più volitive e determinate nel lavoro, mentre gli uomini devono smettere di pretendere che la moglie/compagna resti a loro inferiore per poter affermare il proprio predominio. Fiorire insieme è molto più felicitante.