Quella cattedra ad honorem

Per leggere nella figura di Marta di Betania qualcosa in più

 di Cristina Simonelli
Presidente del Coordinamento delle Teologhe italiane

Mentre erano in cammino, Gesù entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo ospitò. Ella aveva una sorella, di nome Maria, la quale, seduta ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola. Marta invece era distolta per i molti servizi. Allora si fece avanti e disse: «Signore, non t'importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti». Ma il Signore le rispose: «Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una cosa sola c'è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta» (Lc 10,18-42).

 

Non sta scritto da nessuna parte che le donne debbano avere sempre la stessa opinione: ci mancherebbe!

Su alcune questioni, tuttavia, raggiungiamo quasi l’unanimità. Una di queste è Marta di Betania, che vediamo vittima di una pesante ingiustizia: non tanto perché costretta a sfacchinare e sfaccendare, ma piuttosto perché viene rimproverata proprio per quella attività, necessaria a tutti.
Un po’ come succede per Pietro, che in tutti i vangeli viene rappresentato come irruente, nel bene e nel male, così sia in Lc 10,28-42 che in Gv 11, nella casa di Betania insieme a Lazzaro non abita la Donna - quel fantasma irreale ma temibilissimo, che fagocita ogni donna reale - ma ci sono due persone con caratteri diversi e presentate in modo stereotipato. Maria in entrambi i racconti viene descritta come meditativa e riflessiva, Marta invece come irruente e piena di iniziativa. A nessuna delle due la storia successiva ha reso molto onore, a dire il vero: se Marta è un po’ rimproverata e un po’ dimenticata, Maria è addirittura confusa e sovrapposta, fino a farla identificare in alcuni brani e anche in certi dipinti con un’altra Maria, quella di Magdala. Per rendere giustizia a loro due, al vangelo e in certo senso a tutte le donne, esaminiamo uno dopo l’altro i due racconti.

 Il cuore è l’ascolto

In primo luogo dunque il brano più famoso, collocato in una sezione importante del viaggio di Gesù verso Gerusalemme. Tra il racconto esemplare del Samaritano e l’insegnamento sulla preghiera si apre lo spazio di una casa amica in cui la figura di primo piano è Marta, che, leggiamo, «lo ospitò». Anche il suo nome, che in aramaico significa “mia signora”, fa da eco alla sua figura, autorevole, operosa e capace di prendere parola. Sua sorella Maria invece è ritratta in un’altra postura, da un certo punto di vista altrettanto signorile: può stare seduta e ascoltare come un vero discepolo, come abitualmente può fare solo un uomo libero o qualcuno che questa libertà se la prende.
A questo punto abbiamo una coppia di figure tra le quali Luca istruisce un confronto e attraverso le quali avvia anche un dibattitto sul discepolato, come accade anche altrove: fratello maggiore e fratello minore della parabola, chi siede a destra e chi a sinistra fra i discepoli e via di seguito. Se assumiamo, come abbiamo visto anche attraverso la suocera di Simone, che diakonein è termine che serve a indicare i ruoli nella comunità cristiana, nonché l’opera di Gesù stesso, pur senza perdere il riferimento più concreto ai lavori da fare, ci troviamo qui di fronte non a battibecco domestico ma a una discussione sul ministero. Il che sarebbe come porsi la domanda su cosa è essenziale, su quanto attivismo e dirigismo può ospitare una comunità cristiana. Sarebbe, ancora, il richiamo a fare dell’ascolto - della Scrittura, della storia, delle persone - il cuore della chiesa tutta, tesa più ad attivare processi che a occupare spazi (EG 223), tanto di più quanto più è grande la responsabilità di ciascuno.

Il nostro pregiudizio…

Facciamo però fatica a pensare così e non per casualità, ma proprio perché Marta e Maria sono due donne: immediatamente scatta l’immaginario della casalinga affannata, del battibecco muliebre, della gelosia femminile, appena un po’ nobilitate dalla tradizionale graduatoria fra vita attiva e vita contemplativa.
Certo in questo caso si deve riconoscere che l’evangelista Luca ha almeno un concorso di colpa nel fattaccio, perché, nonostante abbia grande fama di scrittore women friendly, nelle sue pagine le donne, dopo i quadretti dell’infanzia e prima della Pasqua, sono piuttosto accessorie, spesso passate nel registro della sussidiarietà economica (Lc 8,1-3); a lui si deve anche la comparsa dell’unzione fatta da una peccatrice (Lc 7,36-40), che è rimasta indelebile sulla povera Maria di Magdala e le scene degli Atti vedono solo in obliquo e raramente donne. Dunque che la parte migliore sia quella del silenzio (così viene improvvidamente tradotto l’ascolto di Maria), nell’insieme, non sarebbe strano.
Ben diverso il quadro del Quarto vangelo, nel quale la progressiva adesione a Gesù è segnata da due donne e un mendicante cieco, rimasti a segnare anche nella nostra Chiesa le tappe catecumenali e quaresimali: la donna anonima di Samaria (Gv 4), il cieco nato, anche lui senza nome, (Gv 9) e, a tutto tondo nella scena complessa della resurrezione di Lazzaro, la sorella del morto, Marta di Betania (Gv 11). Eh già, anche in questo caso l’immaginario, forse inconsapevolmente, misogino entra in azione e banalizza un testo di grande forza. Infatti nel dialogo con Gesù la sua professione di fede viene a suonare così: «Io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo!».

 …e la vita vera

Se fossimo in un laboratorio in presenza, si potrebbe fare una prova: lanciando il versetto, così, senza indicazione della sua provenienza, forse molte persone riferirebbero la frase alla famosissima professione di fede di Pietro (Mt 16,16), quella a cui pensiamo di dovere il suo primato. In effetti le due frasi sono quasi sovrapponibili: «Tu sei il Cristo - dice infatti Pietro - il Figlio del Dio Vivente!». Non c’è sonno nel Getsemani, non c’è rinnegamento nel cortile, non c’è canto di galletto che valga a diminuire le quotazioni di Pietro: del negativo si ricorderà la capacità di ravvedimento, il positivo passerà indelebilmente nel registro istituzionale a indicare la consegna del ministero apostolico.
Esattamente il contrario succede a Marta: le obiezioni e le azioni andranno tutte a finire nel registro bisbetico e domestico, quando non nell’invisa “rivendicazione” o nella presunta isteria che ha a lungo precluso alle donne professioni quali quella di medico o magistrato (per tacere del resto!). Mentre l’alta professione di fede viene derubricata dal piano pubblico per diventare tutt’al più segno di privata devozione.
Nella storia vera, però, non quella segnata dalla porpora e dai primi posti contesi, ma quella di chi veglia e si avvicina alla croce, di chi all’alba va al sepolcro, magari provando sconcerto, dubbio e  paura, ma continuando a portare parole di vangelo e gesti di cura, la risposta suona diversamente: Beata te, sorella di Maria e di tutti… e io ti dico: tu sei Marta e su questa Marta edificherò la mia chiesa, come una casa aperta e non come un tempio buio.

 

Segnaliamo la collana di libri:
Madri della Fede
diretta da Cristina Simonelli e Rita Torti
Il volume dedicato alla figura di Marta è di prossima pubblicazione.