Il virus ha colpito la pastorale. Colpita al cuore la triade classica della pastorale: catechesi, liturgia, carità. Oltre ai morti, milioni di persone colpite economicamente, psicologicamente, spiritualmente. Ma ho accettato. E provo a continuare a vedere cosa si possa imparare da questa situazione.

di Gilberto Borghi

 Tele tran tran

Quando il virus smaschera l’impostazione clericale

 Il prete dentro la rete

A fine marzo ho raccolto lo “sfogo” di un amico prete: «Va bene, capisco la questione sanitaria, ci mancherebbe.

Ma se mi tolgono la messa, il catechismo e gli incontri io che faccio?». Ho provato ad immaginare che avesse una sua ragione per dirlo. Formati ed educati a vivere il sacerdozio come condizione per espletare le funzioni specifiche che lo riguardano, i preti sicuramente hanno faticato a cogliere il senso della loro esistenza fuori da messa, catechismo, organizzazione della comunità. Ovviamente la cosa più gettonata è stata trasportare le funzioni classiche “sulla rete”, invece che celebrarle in presenza: le messe in streaming, o in diretta facebook, i rosari on line, le catechesi video registrate hanno invaso gli schermi dell’Italia. Certamente era la cosa più semplice da immaginare.
Ma c’è chi è andato oltre. I sacerdoti della parrocchia di san Gabriele dell’Addolorata a Roma, sono saliti sul tetto della canonica, da dove potevano essere visibili ai palazzi circostanti, e hanno celebrato le messe con tanto di altoparlanti, salutati, alla fine, da un caldo applauso dei fedeli che, dalle finestre, avevano “partecipato”. Il parroco-pilota di Polesine Zibello, vicino Parma, ha sorvolato la zona rossa del lodigiano “sganciando” benedizioni dal cielo. Un padre domenicano, a bordo di in un aereo militare, ha fatto una “ostensione” del Santissimo Sacramento dal cielo, con a fianco una statua della Madonna di Loreto, da cent'anni patrona degli aviatori. Tutti ricordiamo le immagini dell’arcivescovo di Milano sul tetto del duomo, ai piedi della “Madunina”, mentre prega per la liberazione dal virus. O il “rosario per l’Italia”, di tutta la Chiesa il 19 marzo alle 21,00, festa di San Giuseppe. In giro per le strade della parrocchia, il parroco di Bibione ha improvvisato preghiere e benedizioni a bordo di un motocarro, con tanto di aspersorio, piviale, fiori e statua della madonna, offrendo anche santini “volanti” ai pochi passanti.

 Gli altri canali

La cosa però chi mi ha colpito di più, è stata la enorme difficoltà della pastorale di ritrovare, almeno in un primo tempo, idee alternative da vivere e da proporre. Ci si è prodigati a trovare “canali” diversi per fare le stesse cose di sempre, come se, una volta reso impossibile il normale svolgimento del tran tran pastorale, avessimo ben poche risorse per tradurre il vangelo in “scelte pastorali” che lo potessero testimoniare e celebrare pur all’interno dell’isolamento.
Come sarebbe stato invece se avessimo cercato di sostenere “on line” gruppi di fedeli che avessero avuto voglia, nelle loro case, di organizzare momenti di preghiera silenziosa e personale? La tradizione della Chiesa possiede solide tracce per accompagnare un fedele a “crescere” nella preghiera interiore. Oppure di accompagnare individualmente i fedeli che lo avessero desiderato ad entrare in modo più personale e vissuto dentro la Parola. O, anche più tradizionalmente, di coltivare maggiormente la cosiddetta “direzione spirituale”. Ci siamo “adoperati” per compiere gesti simbolici comunitari, preghiere collettive che condividevano il tempo e non lo spazio, ma ho visto pochi tentativi di dare corpo a relazioni individuali su questioni di fede. Ad esempio, sarebbe stato possibile consentire la confessione non in presenza fisica? Valeva forse la pena rifletterci, ma non ho visto molto movimento in questa direzione.
Ho avuto l’impressione, cioè, che la pastorale del virus abbia evidenziato il virus della pastorale, o almeno uno di essi: lo scollamento della vita interiore, personale dei fedeli, rispetto ai riti e incontri comunitari e l’incapacità di lavorare per una riconnessione di questi due livelli di vita spirituale. Forse, paradossalmente e in modo preoccupante, l’unico tentativo di intercettare il vissuto individuale è stato fatto dalla pastorale “apocalittica”, che si è nutrita della fine del mondo imminente, del virus come castigo educativo di Dio, delle rivelazioni di veggenti e di miracolismi.

 Fare il Vangelo

Credo che la traccia più interessante sia stata quella flebile di una pastorale “dell’umano” che, rispettando i limiti oggettivi e giuridici posti dalla situazione di emergenza, non ha rinunciato a vivere il vangelo “fin dove era possibile”. La trovo descritta magistralmente dalle parole di don Cristiano Mauri, vergate già a marzo, ma che restano vere anche oggi: «Guardo con meraviglia e sorpresa uomini e donne di fede che non si sono troppo scomposti all'arrivo della "tempesta". Certo, gli è sobbalzato il cuore in petto, hanno vissuto lo smarrimento della sorpresa, si sono preoccupati e si preoccupano dei loro cari, hanno conosciuto il turbamento profondo e la paura di perdersi. Ma poi son tornati semplicemente a "fare il Vangelo" che stavano facendo.
Pregano il Padre, così come gli viene, come hanno sempre fatto con umiltà, libertà e fiducia nel suo amore. Amano i fratelli e le sorelle in tutto, così come riescono, non per spirito eroico, ma perché è l'unico modo che ritengono buono per dar senso alla vita. La "tempesta" per loro non è la fine di tutto. Solo un luogo diverso in cui "fare il Vangelo". Un luogo più faticoso, pieno di scuotimenti, carico di rischi, è vero. Ma non la ragione per smettere il Vangelo come un vestito inadatto.
E non cessano di amare. I fratelli, il Padre, come un unico movimento. Perché il Padre non abbandona e i fratelli non si possono abbandonare. Lo fanno come riescono e come possono. E son così abituati a farlo che reinventare modi, gesti, parole, iniziative di vicinanza e di amore non gli viene poi così difficile. Anzi, trovano perfino una grazia nella possibilità di aprire strade nuove. Non si preoccupano troppo di distinguersi dagli altri, anzi sono più beati se non vengono riconosciuti. Non nascondono le loro inadeguatezze, sanno i loro limiti, ma non ne hanno soggezione né vergogna. Non si ritengono meritevoli di ammirazione, pensano semplicemente che stanno facendo quel che devono. Non pretendono l'esclusiva del bene, ma si sentono alleati di tutti coloro che stanno lavorando per salvare, guarire, proteggere; li considerano come fratelli senza guardare al loro credo, e lodano il Padre perché vedono quanto la sua Opera sia molto più grande delle loro opere.
Guardo queste donne e questi uomini, che mi stanno insegnando molto, con grande riconoscenza e ammirazione. E poi guardo a chi, sbandierando la propria fede, grida e si lamenta perché “ci stanno impedendo di essere cristiani”. Mi chiedo, sommessamente, che cosa mai stessero davvero facendo questi prima della "tempesta", per non saper che fare durante. Molti chiedono parole di Speranza. Ma se non ho letto male il Vangelo, la Speranza cristiana, più che un discorso, è una vita donata per amore. La Speranza cristiana forse si dice, ma anzitutto si fa. E io sono grato a chi, in questo tempo, col suo fare, "fa sperare". Che creda, o no».