«Benarrivati a tutti!», la voce di Maura accoglie i presenti. «Oggi ci troviamo catapultati in una situazione del Vangelo della quale forse alcuni di voi fra i più anziani sono stati personalmente testimoni. Ci troviamo a camminare dentro un corteo funebre. Vi dirò che, nei miei ricordi di bambina, ho conservato delle scene molto nitide di questo tipo» continua Maura. «Io vivevo in un paese di campagna e capitavano spesso queste scene: la bara in spalla ai parenti e tutti dietro a piedi, le saracinesche dei negozi abbassate e il prete avanti che recitava le preghiere…». Qualcuno nel cerchio annuisce sorridendo e mi accorgo confortata che in fondo basta poco per presentare il Vangelo di Gesù come esperienza che già abita dentro le nostre vite.

a cura della Caritas diocesana di Bologna

 Il motore ti percuote

Per attraversare il dolore e non morirne

 IL TÈ DELLE BUONE NOTIZIE

Non piangere!

«Ecco dunque la scena: Gesù con i suoi sta entrando nel paese di Nain e contemporaneamente un corteo funebre sta uscendo per portare il defunto alla sepoltura…

il Vangelo ci dice soltanto che si tratta di un giovane. figlio unico di una mamma vedova. Di lei non conosciamo nulla, ma non è difficile immaginare il suo strazio… Nain era un paesino vicino a Nazareth, una terra di gente emarginata. Gesù dunque è in cammino per entrare nel villaggio e li incrocia. Si ferma. Vede la donna. Si avvicina. La guarda e le dice: “Non piangere!”, poi fa una cosa fuori dagli schemi, compie un gesto che non dovrebbe proprio fare perché ritenuto impuro dagli ebrei: tocca il morto avvolto nei lenzuoli, pronto per essere deposto in una grotta come usava allora e gli ordina: “Alzati!”. Qui succede l’inaspettato: il ragazzino si mette seduto e Gesù lo riconsegna a sua madre…Ecco quindi il tema di oggi: il dolore in tutte le sue sfaccettature. Con una domanda: come possiamo restare dentro il dolore senza morirne?».
«A me viene in mente un episodio di pochissimi giorni fa - confida Maurizio -: ero in mensa e ho visto arrivare un ospite fisso di tutti i giorni, come me. Si capiva che stava malissimo. Non ho mai visto così chiaramente una persona star molto male: faceva paura. In tanti volontari gli si sono fatti intorno, per aiutarlo. Volevano chiamare l’ambulanza. Ma lui ha rifiutato, non voleva a nessun costo andare in ospedale. Mi son detto che si poteva solo pregare e che se una persona non si vuol far salvare, nessuno può convincerlo… Ora son contento: ho saputo che in ospedale poi è andato e lo stanno curando. Però la domanda resta: se sei deciso a soffrire, chi può impedirtelo?».

Il dolore vince il doping

«Io ho provato due volte un gran dolore - dice Maria Rosaria - quando morì mia mamma a 17 anni e poi quando morì mia nonna a 23 anni. Ricordo che per mia nonna piansi tantissimo. Ero più grande e più consapevole. Sentivo un senso di perdita e di fallimento, era un dolore acuto e sordo. Però mi sono fortificata. Son convinta che Dio dia questi dolori solo a chi è in grado di sopportarli. È vero che ci ha tolto la mia mamma ma io e le mie sorelle ci siamo forgiate in questa esperienza!».
«Io son convinto che il dolore è il motore della vita - sussurra Nunzio dolcemente -: la morte dei miei mi ha scosso, ma senza di loro sono stato obbligato a ritrovarmi. Allora per me il dolore è un motore portante perché ci scuote dalla cristallizzazione delle nostre vite». «Ma certo! - ribatte Leone dall’altra parte della stanza - il dolore serve perché ti fa capire che è il momento di fermarsi. Se uno va in bici e si dopa, non sente mai il dolore e la fatica, continua a correre, a correre e corre sempre e magari ad un certo punto gli scoppia pure il cuore! Il dolore è un campanello d’allarme: va ascoltato e serve a farci rallentare prima che sia troppo tardi».
«È vero! - esclama Maurizio - poi il dolore unisce le persone, come è accaduto intorno a quel signore in mensa. Il dolore fa anche sentire le persone più vive e più vicine». «Non so - fa Biagio perplesso - più che dolore, io sento rabbia, mi incazzo… Ho perso i genitori che erano anziani e questo mi è parso naturale. Poi però ho perso in pochi anni quattro fratelli che avevano meno di cinquant’anni: tumori, epatite e Aids…Nessuno mi si è avvicinato! Anzi, mi sono sentito proprio scansato! Un tempo c’era più calore nelle relazioni. Mi ricordo quei funerali di una volta, con la processione: tutto il paese partecipava. Il dolore era pubblico, perché eravamo più “pubblici” anche noi! Ora tutto è privato, anche il dolore!».

 Belfagor

«Ma sai cos’è? - riprende Maria Rosaria - il tempo ci manca! Tutto corre troppo veloce. Nemmeno si fanno più i funerali qui! Al sud si facevano i manifesti, si metteva il panno davanti alla porta… Ci si fermava davanti alla morte, ma ora… E poi pensavo che non esiste solo il dolore fisico o quello della perdita. Ero una ragazzina non tanto bella e i miei compagni mi chiamavano “Belfagor”. Soffrivo così tanto che non volevo più andarci a scuola! Insomma, esiste anche il dolore psicologico e fa malissimo!».
«Ho esperienza di quel che dici! - confida Serena - fino ai quarant’anni tutto è filato liscio, poi ho avuto un periodo di depressione dopo la morte di mio marito. Avevo sempre paura, paura di tutto. Non era vita quella! Ho pensato anche ad ammazzarmi. Ma ad un certo momento mi sono sentita raggiunta, aiutata da Dio e piano piano i pensieri ossessivi sono diminuiti. In effetti il dolore a me arriva quando mi sento sola e impotente». «Ma sì! Il fulcro del dolore è sempre la solitudine - sottolinea Nunzio convinto - per forza! Molti di noi non hanno mai nemmeno sperimentato la compassione di qualcuno.  Gesù che è il Figlio di Dio in carne e ossa, Lui sì, prova compassione per tutti quelli che soffrono e si avvicina…».
«Mi pare siano uscite davvero tante sfaccettature differenti», interviene Maura avviandosi a concludere. «La mia domanda è: ma allora che cosa posso fare io di fronte al dolore?». Il cerchio si agita d’improvviso e in un attimo si compone un prontuario per combattere la sofferenza: non vergognarsi di piangere, non chiudersi, ascoltare bene il dolore proprio e degli altri, rallentare e fermarsi, mai giudicare chi esterna il dolore anche se in modo sbagliato: nessuno da fuori sa cosa sta sentendo, stare vicini e darsi tempo, cercare insieme una via di uscita, guardare sempre al positivo, accettare quello che non si capisce immediatamente avendo fiducia/fede, lasciarsi aiutare e non mettere barriere se qualcuno ci tende la mano…

Nella pandemia

Quando abbiamo bevuto insieme questo tè, agli inizi di febbraio, nessuno avrebbe mai potuto immaginare quanto questa sapienza collettiva sarebbe stata utile e preziosa in questo nostro oggi così doloroso per tutti.
Anche il dolore che si diffonde con il virus ci interpella e ci fa rabbia. È proprio vero che anche questo dolore ci chiede ascolto e realmente ci impone un tempo per fermarci ed accoglierlo, ma è altrettanto vero – e se lo dicono i nostri amici esperti dell’argomento, possiamo proprio dar loro credito - che lo stesso dolore è un motore e porta sempre anche una speranza, un cambiamento che ci può far ritrovare una possibilità di vicinanza nuova, in grado di rialzarci, restituendoci l’anima. Proprio come il figlio della vedova toccato da Gesù, con compassione.