Dolore è un sostantivo maschile che si esprime prevalentemente al femminile (così dice la scienza). Travaglio è un sostantivo maschile che viene declinato al femminile (così dice l’esperienza). Carcere al singolare è maschile, al plurale è femminile. Per la donna il carcere è più d’uno. Carcere è un dolore maschile moltiplicato al femminile. Un corpo grave per sua natura cade. Il dolore per sua natura mortifica. Nella forza delle donne il dolore è parto.

a cura della Redazione di “Ne vale la pena”

 Quando al mondo viene un uomo

Il dolore delle donne

DIETRO LE SBARRE

 Nostalgia canaglia

Oggi è di nuovo martedì ed è il quarto martedì che mi sento nel posto sbagliato.

Da quattro mesi per me il martedì era diventato un po' un giorno speciale. Corri Carla, sono le due, perdi il bus. Numero 25, direzione Dozza, via del Gomito. Cuffiette, cartellina, carta d'identità e testa sulle spalle. Una barretta ai cereali da mangiare di fretta, che in fondo, dai, è sempre tutto di fretta, e poi ecco, ancor prima di guardare fuori mi accorgo che è quello il momento giusto di scendere dal bus. Di fronte quel posto dove invece fretta non ce n'è, dove il tempo ha un ritmo tutto suo e un peso diverso, prezioso. "Casa Circondariale Rocco D'Amato", più semplicemente la Dozza, carcere di Bologna.
La guardi e pensi che sì, sei un po' nel nulla. Strada a scorrimento veloce, capolinea, la fine. Eppure, da piccola ho capito bene una cosa: dove le cose finiscono, iniziano. Ripartono. Io credo che dalla Dozza si riparte. Ecco a vent'anni pensi di poter cambiare il mondo. La sfida di quest'età è creare i presupposti per continuare a pensare sempre così, anche a cinquanta. Il fatto è che a volte oggi ci sfugge che il mondo si cambia dal basso, nei gesti, guardando negli occhi le persone. Con i piedi per terra. Anzi, con i piedi nel fango.
E no, se state pensando che alla Dozza ci sia il fango, vi sbagliate. Alla Dozza ci sono dei pavimenti, non belli come quelli di casa, probabilmente, ma pavimenti forti, resistenti a tutte le storie che ci passano sopra. L'unico fango di questo mondo ce l'abbiamo dentro. Ce l'ho io, ce l'hai tu che stai leggendo e ce l'hanno i ragazzi della Dozza. Ce l'abbiamo tutti.
Io credo che il fango non si tolga da solo e che è meglio pulirsi a vicenda. Ecco, il martedì pomeriggio, nell'area pedagogica della casa Circondariale di Bologna, più precisamente nella biblioteca, non si respira aria di presunzione. C'è un tavolo, attorno storie, non detenuti, ma persone. Nessuno pretende di voler ripulire nessuno. Eppure, succede sempre: quando alle 5.30 è arrivato il momento di andare via mi sento sempre un po' diversa. "Meglio" non è la parola adatta, soprattutto se sei una persona che somatizza. Ma diversa sì, e forse solo dopo questi 3 martedì mi rendo conto di diversa in che senso.
Attorno a quel tavolo oggi non si riunisce la redazione della Dozza. E in un modo un po' sentimentale mi viene da dire che è un gran peccato: per noi volontari e credo anche per i ragazzi. È un momento difficile. Ora anche noi al di qua delle sbarre siamo privati della nostra libertà. Oggi che siamo lontani, forse siamo un po' più vicini. Da volontaria, sento “la sofferenza della nostalgia” e non posso non pensare a tutte quelle donne, mamme, figlie, mogli, compagne di vita, che vivono ogni giorno la nostalgia dei loro uomini, della loro lontana quotidianità. Per loro, l'auspicio è quello di tornare presto ad abbracciarsi per mettere fine ad ogni sofferenza.
Per noi volontari, l'auspicio è quello di tornare presto a ripulirci dal fango, con una sola consapevolezza: dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior.

Carla Ianniello

Una nuova routine ai tempi del coronavirus

Il panico da coronavirus è entrato anche negli istituti penitenziari. Quella paura si è trasformata in rabbia e violenza, incontrollata. Si temeva non solo di essere contagiati, ma soprattutto di vedersi negata la possibilità di essere padri, madri, figli e coniugi per qualche ora, in quella fredda e spoglia sala colloqui.

Per poter accedere ai colloqui bisogna affrontare una trafila umiliante. Oltre a sobbarcarsi estenuanti viaggi, i familiari devono attendere davanti al carcere parecchio tempo prima che li facciano entrare nella sala colloqui, e l’attesa è all’aperto anche se c’è neve o pioggia. Una volta entrati si ritrovano nella “sala colloqui”, una stanzetta fredda e poco accogliente, arredata da un lungo tavolone, senza alcun vetro divisorio tra detenuto e ospiti, in modo da poter parlare liberamente e scambiare un abbraccio affettuoso. Il tutto dura un’ora a settimana.
Anche gli istituti penitenziari stanno accusando il colpo di quei provvedimenti che il Governo ha adottato per arginare quest’emergenza sanitaria. Puoi sostituire i colloqui di persona con i colloqui via Skype, ma nessuna tecnologia vale quanto un abbraccio.

Federica Lombardi

 Ogni giorno un fiume

Ogni giorno, fatta salva la domenica, un'inarrestabile processione si snoda silenziosa nel vialetto che, dalla strada principale, porta all'entrata del carcere di Bologna; processione che, nel medesimo istante, dolente, prende le mosse in ogni città in cui vi sia un penitenziario.
Ad osservarlo da lontano è un fiume silenzioso di persone che, spesso, fin dalle prime ore del giorno fluisce secondo i ritmi e gli orari dettati dalla burocrazia della vigilanza. Ma se ci avviciniamo, se il nostro sguardo si fa più attento, possiamo vedere come la stragrande maggioranza di queste persone siano donne. Madri, mogli, sorelle, fidanzate, figlie, nonne. Sì, persino loro che, pur nell'affanno dell'età in cui speravano di godersi i nipoti, magari attorno ad una tavola rumorosa, imbandita di pietanze e ricordi, ancora non desistono dal compiere quella straordinaria funzione che sembra non abbandonarle mai e che si sostanzia nella sola parola che può, credo, definirla compiutamente: amore. Come altro chiamare ciò che queste donne riescono a donare agli uomini che, a vario titolo, si trovano reclusi dentro le mura di una prigione?
È un amore incondizionato che riesce a vivere superando la sofferenza generata dall'essere stato trascinato nel precipizio di circuiti criminali. Donne che spesso perdono stabilità sociale, sicurezza economica e che vivono in maniera simbiotica la condanna e la pena degli uomini a cui continuano a dedicare la vita. Donne che, per la più parte e nonostante tutto, accompagneranno gli uomini per tutto il periodo della detenzione cercando di far quadrare i conti, di educare i figli nell'assenza dei padri, di non farsi travolgere dal dolore e dalla disperazione che, nella solitudine di notti e giorni difficili da sopportare, le prenderà allo stomaco.
Già, perché per ogni uomo che viene condannato c'è una donna che sarà costretta a condividerne la pena. Non solo il pianeta giustizia e la riprovazione pubblica non ne tengono conto ma, a volte, anche coloro che si rendono protagonisti di reati sembrano non comprendere. Queste donne sono le loro prime vittime, le nostre prime vittime. Ma, al contrario delle vittime oggettive dei reati, queste non ci odieranno, non ci copriranno di improperi e di disprezzo ma, pur nel dolore della condizione in cui le abbiamo catapultate, continueranno, mese dopo mese, anno dopo anno, ad attendere con ansia i dieci minuti della telefonata settimanale e l'ora del colloquio caricandosi di borse contenenti indumenti e quelle limitate provviste consentite per regalare un po' dei sapori che nel carcere vanno perduti, e non importa se farà freddo o se l'asfalto ribollirà sotto le suole: loro, le donne, si sottoporranno ad attese estenuanti fuori dalle mura pur di vivere quell'ora agognata. E non mancherà l'umiliazione della perquisizione personale che, ancor più, ricorderà loro l'abisso indecente a cui si devono sottomettere pur di raggiungerci.
Chi vive la condizione di recluso rischia di chiudersi nel proprio microcosmo fatto di monotona quotidianità, di gesti meccanici e ripetitivi che nulla hanno a che vedere con la vita vera e può faticare non poco a comprendere l'impegno, gli sforzi, la frustrazione d chi si deve sobbarcare viaggi, a volte lunghi anche centinaia di chilometri, pur di non far mancare quel poco di materiale che si può portare appresso e di quel molto di morale che porta in sé. Ho visto detenuti rimproverare le proprie mogli o madri per essersi dimenticate un oggetto o un alimento e ho provato grande disagio. Ho visto le loro lacrime e mi sono chiesto perché non avessi una ciotola in cui raccoglierle per ricordare ad ognuno di quelli che credono che tutto gli sia dovuto, da dove sgorga l'amore che le porta da noi, che le spinge ogni giorno, fatta salva la domenica, a ingrossare quel fiume che, come un'inarrestabile processione, cerca caparbiamente di tenere vivo quel filo che, nella speranza, ancora unisce il mondo di fuori al mondo di dentro.

Sergio Ucciero