In questo numero, dedicato alla comunicazione, anche “In Missione” affronta il tema, con un taglio inevitabilmente missionario: dal Centrafrica, la voce di padre Enzo Canozzi, segretario delle missioni cappuccine di Genova, poeta, già missionario in quel Paese per trentacinque anni, parla della forma di comunicazione più elementare, la lingua, mentre padre Carmine Curci, direttore dell’Agenzia missionaria Misna, ci accompagna alla scoperta dello splendido strumento di comunicazione che dirige.

Saverio Orselli

Il momento di restare e partire

Intervista a Enzo Canozzi, segretario delle missioni della Provincia di Genova

Image 146Questa è la seconda parte della lunga intervista a padre Enzo Canozzi, attuale segretario delle missioni della Provincia cappuccina ligure e per trentacinque anni missionario in Centrafrica. Messaggero Cappuccino in questo numero tratta il tema della comunicazione e con padre Enzo abbiamo parlato della forma più elementare e forse più importante di comunicazione: la lingua.

Una cosa che mi piacerebbe approfondire, perché mi colpisce sempre molto, è la presenza in Centrafrica del sango, una lingua che unisce tutte le etnie, anche se il paese in sé non sembra altrettanto unito.

In realtà il Centrafrica non è un paese in cui ci sia una grandissima varietà di etnie. Ci sono quelle cinque o sei etnie madri e poi le altre più piccole. Ad esempio i Bayas, l’etnia più grande, si divide in etnie figlie, a seconda della zona, così come avviene per i Banda, per gli Yacoma ecc. che si dividono in sottoetnie che si rifanno alla principale. Tutte hanno una propria lingua diversa. Negli ultimi ventidue anni di missione, ero in mezzo ai Panà, che a loro volta sono una etnia-figlia dei Boum, presenti nei vicini Ciad e Camerun, oltre che nello stesso Centrafrica. Ora i Panà, oltre la lingua della loro etnia, parlano come lingua nazionale il sango, che è una lingua che usavano nella zona del fiume Oubangui per i commerci anche con il Congo…

Image 152Si trattava di una antica lingua commerciale?

Questo non te lo so dire. Per certo so che i primi missionari arrivati in Centrafrica parlavano francese e poi, quando hanno deciso di scendere dal loro trono per entrare in contatto con la gente, hanno iniziato a parlare il sango. La lingua ufficiale è il francese, eredità del tempo delle colonie, usato a scuola e nella pubblica amministrazione, ma la lingua della vita, degli scambi tra tutte le etnie presenti nel paese è il sango. I Panà, fra tutti, sono quelli che hanno conservato di più gli antichi riti di iniziazione dei ragazzi, tanto che esiste una specifica lingua che parlano solo quelli che hanno fatto i riti di iniziazione, una lingua speciale che non conosco. Nei periodi di iniziazione, quando sono a fare i riti, non possono parlare con nessun altro che quelli che conoscono questa lingua di iniziazione. I Panà avevano un sacerdote del “grande spirito” che adoravano come Dio. L’ultimo sacerdote è morto quando ero a Ngaoundaye. Si trattava di un sacerdote della loro etnia, che andava a fare i sacrifici sul sacro monte Panà; un monte sul quale si rifugiavano i Panà ai tempi delle razzie dei Fulbe, arabi del nord Camerun, che li catturavano per venderli come schiavi al porto di Douala. Quando era necessario, lui saliva sul monte sacro e offriva sacrifici - una capra o un pollo o della birra di miglio - per implorare la pioggia o favorire un buon raccolto o scongiurare il contagio di malattie, ecc. Quest’uomo andava in giro nudo, con una pelle di capretto legata sulla schiena e rigirata sotto l’inguine, per coprirsi un po’, e aveva uno strano cappellino, simile a quello dei coltivatori di riso del Vietnam, e in mano il bastone del potere. Eravamo amici, anche se lui parlava solo la lingua degli iniziati che io non capivo e gli parlavo in sango che conosceva. Quando è morto, il mio cuciniere era il più vicino di casa e, per tradizione, doveva dare l’annuncio della morte del Gang-Panì, per cui mi chiese di lasciare il lavoro per correre a compiere questo dovere. Ricordo che gli chiesi cosa dovesse fare per dare l’annuncio e mi rispose che doveva innanzitutto prenderlo per un piede e scuoterlo, dicendogli «Scemo, perché sei morto senza avvisarmi». Non mi sembrava rispettoso e glielo dissi, ma quella era la prassi da seguire; poi il corpo veniva portato su una stuoia in casa sigillata. I saggi si riunivano fuori per giudicare come si era comportato il defunto. Se il giudizio era positivo veniva sollevata la stuoia per portare il corpo alla sepoltura. Se il giudizio non era del tutto positivo, veniva trascinato prendendo due angoli della stuoia e se poi il giudizio era negativo, legata una corda a una caviglia, veniva trascinato fino alla fossa così. Ho lasciato libero il cuciniere e, dopo poco, sono andato anch’io, per pregare per il Gang-Panì, da cattolico come sono. Quando mi hanno visto arrivare mi hanno chiesto meravigliati come mai fossi lì e ho risposto che c’ero per pregare per un collega: «lui era il sacerdote del “vostro” Dio, mentre io sono il sacerdote di Dio», ma, forse, lo stesso con nome diverso. Volevo pregare accanto a lui ma la casa era già stata chiusa e non si poteva più entrare e così, dopo aver detto che mi dispiaceva molto, feci per ritornare alla missione. Parlarono tra loro. Dopo poche decine di passi mi richiamarono dicendo che per me avevano deciso di fare un’eccezione, riaprendo la casa. Mai avrebbero fatto una cosa simile in altre circostanze e che l’avessero fatto per me significava che ero accettato completamente tra loro. Con un anziano sono entrato, ho pregato e quindi sono uscito, ringraziando del gesto che avevano fatto e, per tutta risposta, mi chiesero di fermarmi per parlare. Volevano sapere se ero d’accordo che eleggessero un nuovo Gang-Panì. Anche se da me si aspettavano un no, dissi loro un sì, perché se questo Gang-Panì rappresentava una parte della popolazione era giusto che questa avesse un proprio sacerdote. Però dissi loro «è importante che scegliate un tipo serio, uno che non beve e che non si renda ridicolo quando è ubriaco… e poi siete voi che dovete dare dignità al vostro sacerdote, perché se non gli date peso, se non lo ascoltate, è meglio non averlo».

Ecco, come puoi capire, come missionario sono entrato nel loro mondo, ma se dovessi dire che certe cose mi sono chiare, non posso davvero dirlo. D’altra parte, non sono chiare nemmeno ai Panà che tornano dopo gli studi nella capitale Bangui e che spesso finiscono per sentirsi isolati. Ci sono cose che rimangono misteriose e incomprensibili anche dopo decine di anni di vita vissuta tra loro. C’è però da dire che le persone sono squisite e quando ti vogliono bene è un bene davvero profondo.

Io sono andato in mezzo a loro, ho dormito nelle loro capanne per tantissimi anni, ho mangiato insieme a loro, sono andato a fare il bagno insieme a loro, a lavorare insieme a loro… ci sono le amicizie che nascono nel mondo del lavoro che sono bellissime e molto profonde!

Image 152Con una esperienza così ricca alle spalle, cosa si prova nel tornare in Italia?

Il Padre eterno mi ha dato un dono che non è da poco: in tutti i posti dove sono mi trovo bene. In tutti i lavori che faccio ci metto il cuore e, prima o poi, mi riescono bene. Non ho difficoltà neppure a raccontare la mia esperienza missionaria qui, di nuovo nella mia lingua. Mi avevano detto che sarei rimasto due anni ed invece sono già sei e, in fondo, mi dicono che è bene che io resti, perché certe cose le spiega meglio chi le ha vissute. Così mi hanno detto i miei superiori… E così, quando vado a predicare nelle parrocchie, spiego un po’ lo spirito di accoglienza, parlando dell’accoglienza che in Centrafrica hanno avuto con me; parlo della pazienza, come l’hanno avuta con me… ho una tale quantità di aneddoti da poter raccontare! Adesso poi ho cominciato a scriverli in un libro, ma chissà quanto tempo mi ci vorrà per finirlo. Le prime pagine sono finite nel catalogo di una mostra che abbiamo fatto a Genova e sono piaciute molto. Raccontavo del mio approccio all’Africa e devo dire che sono molto contento di aver vissuto questa esperienza e forse di aver capito quando era il momento giusto per abbandonarla.

Image 154Non si prova nostalgia? E, soprattutto, quando ha capito che era arrivato il momento giusto per ripartire?

C’è sicuramente la gioia di ritornare in quei luoghi, ma in me c’è anche la gioia di vivere qui. Il mal d’Africa cos’è? È il contatto con le persone, che ora ti manca. Ma se tu vivi in contatto con la gente, anche in altri luoghi, non soffri di questo male. Puoi vivere una realtà gioiosa da tutte le parti. Il fatto è che, spesso, quelli che vivono giù per tanti anni non riescono più a vivere bene qui, ma, se hai la fortuna che ho io, questo non capita e sei felice ovunque.

Sono tornato nel 2005, ma nel 2002 avevamo dovuto affrontare la guerra, nella quale uccidevano e distruggevano tutto. Ci avevano detto di fuggire in Camerun e così facemmo, ma io non riuscivo a stare lontano dalla mia missione, così dopo due giorni sono tornato in mezzo alla gente. Per me la scelta era o lì con la gente oppure tornare in Italia. Così sono tornato alla mia missione, anche se rischiavo di essere ucciso. Qualcuno è rimasto in Camerun, qualcuno è tornato in Italia, mentre io e fra Francesco siamo tornati a Ngaoundaye. Abbiamo vissuto di tutto, dalle sparatorie alle distruzioni, però mi sono scoperto coraggiosissimo. Davvero non sapevo di avere tanto coraggio, al punto che affrontavo i guerriglieri senza paura che mi sparassero. Le persone mi sentivano dalla loro parte, tanto che mi invitavano a parlare a loro nome, assicurandomi il sostegno. E così abbiamo difeso praticamente tutto quel che si poteva, tanto che arrivarono quelli della Caritas e furono meravigliati, e dicevano che era la prima volta che si trovavano in Africa di fronte a della gente che, invece di saccheggiare, aveva difeso tutto. Noi frati avevamo consegnato tutta la roba della missione alla gente, che l’aveva custodita per tre o quattro mesi e poi l’aveva riportata tutta, compresi i soldi. Era andata così bene che quando sono tornati il sottoprefetto e il sindaco, che erano fuggiti all’inizio degli scontri, ho potuto dire loro che non avevamo più bisogno della loro presenza, perché quando c’era stata la necessità di aiuto, erano scappati. Potevo permettermelo, perché ero rimasto lì con la gente. È stato a quel punto che ho pensato che era arrivato il momento di partire. Da missionario ero diventato un idolo e potevo affrontare l’autorità e bocciare le cose che non piacevano alla gente, ma loro non avevano il coraggio di contestare pubblicamente. Era il momento giusto per partire, perché fossero loro a prendere la vita in mano. Ora è una gioia potervi tornare ogni tanto, e ritrovare un affetto ancora vivo e vero.

Povere scuole d’Africa

Sono curvo

imprigionato d’impotenza

come uno schiavo di marmo.

Vorrei ergermi

e gridare a tutti

che allo stadio

si delira per un pallone

e che i tamburi e le danze,

stanotte,

ubriacheranno la luna;

ma domattina

la luce accecante del sole

condannerà

la nostra ignoranza,

cresciuta di tre mesi:

a novembre

le porte delle scuole

sbattono

ancora sgangherate;

i banchi polverosi

son rosi

da voraci termiti,

e gli sguardi intelligenti

dei bambini neri

rincorrono le nuvole.

La poesia è tratta dal libro:

Enzo Canozzi

Abbracciato alla vita

VELAR, Gorle (BG) 2011, pp.124