Parola di babbo e mamma

Lettera a quei figli mai cresciuti, ma tanto amati e sempre presenti 

di Barbara Bonfiglioli
della Redazione di MC

 Caro Pietro e caro Paolo,

voi siete i nostri figli, siete quella freccia lanciata verso il futuro che solo io e vostro padre abbiamo sentito, sperimentato e, purtroppo, mai visto ed abbracciato.

Voi, ora, siete la nostra speranza e la nostra armonia. Ma per troppo tempo siete stati il nostro silenzio ed il senso di colpa della vostra mamma.
Spero che possiate perdonare questa madre che è stata incapace di parlare di voi. C’è una cultura del silenzio che aleggia attorno all’aborto spontaneo. È inquietante come i medici consiglino ai genitori di non annunciare la gravidanza per le prime dodici settimane, nemmeno agli amici più stretti o ai parenti. È inquietante, perché il messaggio che passa è chiaro: il bambino non annunciato non esiste e quindi non ha senso piangerne la morte.
Come una vita non è mai trasparente, così anche il dolore non lo è. Perdere un figlio è un dolore così profondo e grande che dovrebbe essere gridato; mentre, a volte, diventa vergogna e colpa, in particolare per la madre, come se lei, come donna, non funzionasse bene, visto che non è riuscita a tenere dentro di sé questa vita.
Spero che possiate perdonare questa mamma per tutte quelle ore in cui avrebbe potuto parlare di voi, della gioia che tutto il corpo annunciava con i suoi cambiamenti e, poi, del dolore che ha provato nel non potervi abbracciare. Spero possiate perdonarla per tutte le ore che ha passato cercando di dare una spiegazione. Forse avrei potuto lavorare di meno. Forse avrei potuto fare più attività fisica. Forse è una punizione per aver fatto qualcosa di sbagliato. La lista si può allungare all’infinito.
Pensavamo con voi di realizzare il miglior mondo possibile, donandovi quanto di più bello avevamo nel nostro cuore e nella nostra vita. Invece non potremo mai farvi il bagnetto, né cantarvi una ninna nanna per farvi addormentare. Non potremo vedervi andare in bicicletta con la rotellina, non conosceremo i vostri amici e non dovremo fare i conti con i vostri colpi di testa adolescenziali. Ci siamo persi parole, giochi, coccole, corse. Non potremo esplorare il mondo con voi e scoprirlo per la seconda volta. Avremmo voluto esserci, lì accanto a voi. Mai avremmo voluto amarvi a distanza. Ed invece siete voi che siete accanto a noi, presenti.
Ma al silenzio imposto si può rispondere con il pianto, non subìto ma attivo, che può rendere fecondo il dolore e consente di rinnovare le relazioni con il prossimo e con Dio. È quindi doppiamente crudele impedire ad alcuni questo pianto, perché nega lo sfogo, ma, soprattutto, inibisce questi canali di relazione. La cultura del silenzio, infine, mira a negare una grande verità: non abbiamo alcun controllo sulla sorte dei nostri figli. I figli sono un dono che non sai quando ricevi e non puoi pensare di meritare, né programmare. Alcuni genitori lo scoprono quando i propri figli sono grandi, altri quando sono piccolissimi.
Ricordo bene quei momenti: ero molto spaventata. Mi sono arrivati fortissimi dolori, le prime perdite ematiche. Ero preoccupata. Siamo andati al pronto soccorso ostetrico, dove mi hanno guardata un po’ sorpresi per questo mio allarme. Poi però i medici capiscono che qualcosa non sta procedendo bene e che la situazione ha una certa urgenza.
Un medico mi ha fatto un’ecografia che non saprei definire in altro modo se non disumana. Non aveva fatto entrare vostro padre. Mentre mi diceva che voi eravate morti, parlava con un altro medico su come era stancante il turno nei giorni festivi.
Sono uscita con la diagnosi di aborto spontaneo e mille emozioni: incredulità, confusione, rifiuto, paura, rabbia e dolore, tanto dolore. Il mio cervello provava a difendermi. Ho provato a balbettare alcune domande, ma fui zittita malamente da questa dottoressa che mi informava che alla mia età era cosa normale e che, in fondo, il mio utero stava espellendo un grumo di cellule difettose. Nessuno in quella istituzione vi ha mai chiamato per quello che eravate: figli.
Nessuno mi ha detto neppure un “mi dispiace”. Mi sono ritrovata in una camera con altre donne, in ginecologia. Non credo che possa esistere in un ospedale un reparto per le madri in lutto, ma mi sono resa conto subito che per nessuno di quegli operatori io avevo il diritto di essere in lutto, meno che meno di manifestarlo.

L’unica cosa che abbiamo sperimentato è stata l’assenza. Assenza di tutto: di accompagnamento, di presenza, di spiegazioni, di compassione. Che il mio corpo provasse dolore era contemplato come una parte della procedura. A fine giornata mi è stato fatto un raschiamento e il giorno dopo un’ecografia. Mi hanno detto che andava tutto bene e che mi rimandavano a casa, con la sola raccomandazione di prendere qualcosa se sentivo dolore.
Perché dopo un’interruzione di gravidanza si prova dolore, e tanto. Quello che fa male è il silenzio disumano che lo accompagna. Perdere un bambino, anche prestissimo, è comunque un lutto, ma questo lutto non è socialmente riconosciuto. Mi trattavano a grandi pacche sulle spalle, dicendomi “la natura fa il suo corso: è meglio così piuttosto che nascesse malato”; “ne farai un altro”, “la prossima volta andrà meglio”, “non si può piangere per un grumo di cellule”.
Con tutto il rispetto per chi ha subito lutti più profondi, nessuno si sognerebbe di trattare così una vedova, meno che mai una madre che perde un figlio. Ma io non avevo partorito, io non avevo un figlio quindi non potevo perderlo né soffrire per lui. Questa logica è assurda, tutto il mio corpo me lo stava gridando; ma per mesi l’abbiamo avallata.
Però una cosa vogliamo scrivervela: io e vostro babbo avremmo potuto arrenderci, piegandoci alla sofferenza. Saremmo stati persone diverse; invece, abbiamo scelto di amarvi, di piangervi e, amandovi e piangendovi, abbiamo rinnovato quella relazione, con gli altri e con Dio.
Babbo e mamma non vi possono dimenticare. Il vostro destino non è stato il nostro. Voi siete fatti per una strada di luce, per una verità che risplende e della quale noi non dobbiamo provare vergogna. Abbiamo imparato che tenere tutto dentro e soffocare i singhiozzi su un cuscino non serve e ci rende solo più duri. Abbiamo sperimentato che esternare il nostro dolore ha permesso agli amici di consolarci, rendendoci migliori: lasciarci consolare ci permette di camminare sopra le difficoltà, le ansie e il dolore e di dare un significato alle nostre vite, anche se doloranti e ammaccate. Abbiamo scelto di lasciarci incantare dallo sguardo dei tanti figli che incontravamo.
È stato un cammino che ci ha liberato dal passato, dalla vergogna di soffrire; e così facendo abbiamo potuto ricominciare insieme, liberi, leggeri e coraggiosi, sapendo accogliere la gioia e la sofferenza nostra ed altrui, senza giudizio.
Questa, figli tanto amati, è la nostra e la vostra storia, che condividiamo con amore, qui ed ora, e che attendiamo di comprendere quando ci ritroveremo tutti insieme nell’Amore infinito.

Babbo e mamma