Strappati e ricuciti

Luca, nella vedova di Nain ci mostra Gesù attento e compassionevole

 di Elizabeth Green
pastora battista di Cagliari e Carbonia, membro del Coordinamento Teologhe Italiane


E Gesù si fermò

«Dio è seduta e piange», recita una preghiera che amo citare; «la meravigliosa tappezzeria della creazione che aveva tessuto con tanta gioia è mutilata»

[M. Riensiru, A tutte le tessitrici del mondo in Comitato Italiano per la CEVAA Comunità di Chiese in Missine, (a cura di), Spalanca la finestra, Trieste (2000), p. 116].
Mutilata come la vita della donna che sta portando a seppellire il suo unico figlio. Mutilata come questa donna di cui non sappiamo nulla se non la sua città di provenienza, Nain. Mutilata come una donna a cui è morto non solo il figlio ma anche il marito. Il dolore non è donna ma la donna, trovandosi al nodo di relazioni umane fondamentali, unendo nel suo corpo una generazione all’altra, vicinissima ai misteri della nascita e della morte conosce fino in fondo il dolore. 

«In seguito Gesù si recò in una città chiamata Nain, e con lui camminavano i suoi discepoli e una grande folla.
Quando fu vicino alla porta della città, ecco, veniva portato alla tomba un morto, unico figlio di una madre rimasta vedova; e molta gente della città era con lei. Vedendola, il Signore fu preso da grande compassione per lei e le disse: “Non piangere!”. Si avvicinò e toccò la bara, mentre i portatori si fermarono. Poi disse: “Ragazzo, dico a te, àlzati!”. Il morto si mise seduto e cominciò a parlare. Ed egli lo restituì a sua madre. Tutti furono presi da timore e glorificavano Dio, dicendo: “Un grande profeta è sorto tra noi”, e: “Dio ha visitato il suo popolo”». (Lc 7,11-17)

Perciò Luca ha un riguardo speciale per lei. Non a caso parla spesso delle vedove, facendole modelli di profezia, di fedeltà, di resistenza nonché oggetto di attenzione da parte della prima chiesa (Lc 1,36; 18,1-8; Atti, 1-2). Infatti, la vedova, privata della sua fonte di sostentamento, era una categoria sociale a rischio di indigenza ed era, insieme agli orfani e agli stranieri, tutelata dalla legge dell’antico Israele (ad es Dt 14,29).  Ora la vedova di Nain ha perso anche il suo unico figlio. Ha ben ragione di piangere.
«Dio è seduta e piange» recita la nostra preghiera, ma poi? «Raccoglie i brandelli delle nostre tristezze, le pene, le lacrime, le frustrazioni».  Gesù, arrivando insieme alla folla e ai discepoli vicino al corteo funebre, che cosa fa? Non guarda altrove, non passa oltre, non finge di non vedere, ma “vedendola”. Ai vangeli è del tutto estranea una mistica o una glorificazione del dolore. Tuttavia davanti a una scena così straziante, Gesù non toglie lo sguardo. Vede il dolore che sale in ondate dalla donna, dolore che viene ampliato dalla folla e lo accoglie dentro di sé. Il dolore sentito sulla propria pelle gli entra dentro, lo travolge, lo mutila e, a sua volta, «il Signore fu preso da grande compassione per lei».
La parola compassione viene usata per indicare il sentimento che poco dopo, nella storia raccontata da Gesù, smuoverà il samaritano facendolo agire nei confronti dell’uomo «caduto nelle mani dei briganti» (Lc 10,30-35). Il termine è particolare perché richiama le viscere ritenute la sede di amore e di pietà. D’altronde, anche le scritture ebraiche indicano la misericordia divina mediante una parola che ha a che fare con l’utero e che evoca un amore corporeo, appassionato, forte, materno. Amore che soffre insieme all’altro o all’altra e spinge all’azione a favore di lui o di lei. Non per confermare il dolore, ovviamente, ma per trasformarlo.
Infatti, per Luca il vangelo consiste proprio nella trasformazione di situazioni ingiuste e dolorose. «Ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili», canta Maria, trovandosi in stato di attesa (Lc 1,52). Sono stato mandato a «rimettere in libertà gli oppressi» (Lc 4,18) dichiara Gesù nella sinagoga a Nazareth. Sì, perché a confortare la donna non è tanto Gesù quanto “il Signore”, Dio stesso, che nel proprio grembo sente tutto il dolore del grembo privo di speranza della vedova di Nain. 

 La resurrezione che ripara

Può darsi che Dio è seduta e piange ma non se ne sta lì seduta, «raccoglie i brandelli di un duro lavoro...». Raccoglie tutti gli sforzi di una donna che da sola e in mezzo a mille privazioni ha cresciuto il suo unico figlio per vederlo poi morire di fame, di guerra, di malattia. «Non piangere più», le dice. Anzi «beati voi che ora piangete, perché riderete» (Lc 6,21). Il Signore sta per trasformare le lacrime di dolore in lacrime di gioia!
Gesù si avvicina e tocca la bara fermando il suo viaggio verso la tomba. «Ragazzo, dico a te, alzatì». Certo, il ragazzo sentendo arrivare una voce attraverso quel sonno buio che è la morte poteva bene pensare che non lo riguardasse. I ragazzi, sì sa, sono sempre distratti. Eppure lo riguardava. «Ragazzo, dico a te, sì proprio a te, alzati». È necessario dire che quel semplice “alzati” pronunciato da Gesù richiama l’alzarsi - da li a poco - di Gesù dalla morte? Che l’alzarci è ciò che facciamo ogni mattina quando scendiamo dal letto o quando entra in classe la prof? In altre parole, alzarci è qualcosa che facciamo tutti giorni nelle situazioni più disparate. Così, attraverso una parola di ordinaria amministrazione la straordinaria potenza della resurrezione entra nel quotidiano nella nostra vita.
Il ragazzo, che cosa fa? Beh si sa, si scuote, togliendosi di dosso i residui di quel sonno destinato a durare per sempre e si mette a parlare. È sano e salvo. È stato strappato dalla morte e restituito alla madre. La relazione è stata ricomposta, il tessuto strappato ricucito, l’esistenza mutilata resa integra, le lacrime di dolore trasformate in grida di gioia. Alla vedova è stata restituita la speranza, il futuro, qualcosa che va oltre il livello di mera sussistenza che forse le sarebbe stato garantito. La donna può proseguire il cammino, non più verso la morte ma verso la vita.

 L’arazzo della nuova creazione

Dio è seduta e piange una creazione mutilata dalla morte e dal dolore ma poi, mossa da compassione, agisce, si dà da fare, comincia a ritessere, «dà vita ad un nuovo arazzo, una creazione ancora più ricca, ancora più bella di quanto fosse l’antico!». Non a caso tutti coloro che accompagnavano la donna e che avevano assistito alla scena «furono presi da timore e glorificavano Dio». Pensando a Elia che in un passato remoto aveva riportato alla vita il figlio di un’altra vedova (1 Re 17,17-23) dicevano «un grande profeta è sorto tra noi». Ma poi, fanno un passo più in là: «Dio ha visitato il suo popolo». Così con la maestria che lo contraddistingue Luca tesse la storia di Gesù insieme alle aspettative di Israele espresse da Zaccaria, «Benedetto il Signore, Dio d’Israele, perché ha visitato e redento il suo popolo» (Lc 1,68). Tant’è che il restituire il figlio a sua madre completa i segni del Regno che verranno riferiti ai discepoli di Giovanni. «Andate e riferite a Giovanni ciò che avete visto e udito: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciata la buona notizia» (Lc 7,22).
Gesù non scappa davanti al dolore altrui. Gesù non si sottrae all’ingiustizia di una morte prematura e di una donna distrutta. Come Dio che è seduta e piange, si fa carico di quel dolore, lo accoglie nelle sue viscere dove verrà espulso, trasformato in nuova vita. La potenza della risurrezione come le doglie del parto! La potenza della resurrezione nel tran tran della vita costellata di morte e povertà, di dolore e disperazione, che restituisce il figlio alla madre, ricuce relazione, ripara mutilazione. E noi? Il Dio che è seduta e piange che cosa ci domanda? «Di restarle accanto davanti al telaio della gioia e di tessere con lei l’arazzo della nuova creazione».

 

 

Dell’Autrice segnaliamo
Un percorso a spirale,
Claudiana editrice, Torino 2020.