We want you!

La parrocchia dev’essere una casa per tutti e non escludere nessuno

 di Roberto Gordini
diacono a Rossetta di Bagnacavallo (RA)             

 Quante cose sono cambiate negli ultimi quarant’anni! E quante ancora stanno cambiando.

 
Da noi si sono svuotate dapprima le nostre montagne e le nostre colline e poi, gradualmente, anche le nostre campagne. I lavori si sono differenziati e sono divenuti mobili e provvisori, incidendo profondamente sul tessuto sociale. La gente va sempre più verso il grande centro, mentre le frazioni si svuotano di abitanti, di servizi e di negozi. Quel che era pochi decenni fa, ora non è più, ora è completamente stravolto.
Quando sono arrivato qui a Rossetta, nel 1995, nel mio vicariato c’erano 13 parrocchie e 15 sacerdoti. Ora i sacerdoti sono 5, la popolazione non è cambiata di numero: circa 20000 anime.
La parrocchia era il fulcro di ogni attività, soprattutto nelle campagne. Era catechesi, erano riti religiosi, era cultura, era ricreazione, era sport. Con il forte calo delle vocazioni sacerdotali non abbiamo trovato che la soluzione di aggregare se non chiudere. Non credo che sia la soluzione giusta.
 Bene, prendiamo atto che molto è cambiato. Non tutto in peggio. La gente non viene più in chiesa per obbligo, per consuetudine o per inquadramento nella società. La gente che cerca una spiritualità, la cerca principalmente nuova, meno tradizionale, più forte. Non vuole prediche, vuole che chi parla del vangelo lo testimoni nella vita.

 A tutti un ruolo

La parrocchia, con le sue attività prestate da tutti in modo gratuito e sincero, è una ventata di speranza. Il compito dei ministri della Chiesa è cogliere questa bellezza e portarla alla luce. E dire dei “grazie” stratosferici a chi si presta col cuore, valorizzare le persone, chiamarle per nome. Io abbraccerei sempre tutti, sono una grazia di Dio. Mi sento veramente poca cosa rispetto a tanti altri che sono qui con me.
 La parrocchia non è la casa di una stretta élite, dove dobbiamo curare i migliori e lasciare perdere i peggiori. Non credo che dobbiamo fare della serie A e della serie B, credo che occorra lavorare a tutto campo e penso che occorra comunicare a tutti Gesù Cristo radicandolo bene nel cuore.
 Ma per fare questo non si può prescindere dal coinvolgere il maggior numero di parrocchiani possibile. Tutti possono avere un ruolo: è così che si forma la famiglia parrocchiale, stando insieme con idee chiare e spirito di servizio.
Abbiamo ancora a disposizione grandi opportunità che si incrociano nella vita di tutti: i sacramenti, le messe, le liturgie, i funerali. Penso che dobbiamo lavorare il più possibile sull’umanità delle persone, essere presenti nelle gioie come nei dolori, sottolineando che tutto può prendere un colore diverso se si vede alla luce di Gesù Cristo. Io, diacono, sono lì, ma sono niente se non sono insieme alla mia gente.
 I sacramenti sono momenti forti che dobbiamo fare partire da lontano. Non possiamo finire come distributori di merendine, uno mette un gettone e via. Ad esempio: se si incomincia il battesimo condividendo le attese, le preoccupazioni, le gioie, le speranze fin dalla gravidanza della mamma, ecco che il battesimo è un punto di arrivo naturale, maturato nel cuore e nell’anima dei genitori, dei nonni, degli amici. Dio lo si sente vicino. Ma non possono essere un sacerdote o un diacono o una suora o un padre da soli a portare avanti tutto questo. Occorre coinvolgere la comunità, attraverso la preghiera, l’informazione, facendo sentire il calore della famiglia a chi vive l’attesa e poi l’arrivo del sacramento.

 Si può fare

Certo le cose non sono semplici. Oggi più che mai la nostra gente è disorientata, scombussolata, manipolata, delusa, abbandonata a sé stessa. Si butta nella corsa individualistica forsennata, nell’attivismo asfissiante, nel consumismo.  Se ha qualcosa di spirituale si tratta spesso di religiosità intimistica, relegata nel cantuccio e non tradotta in apertura verso il prossimo. Il risultato è questa mancanza di serenità e di gioia. La parrocchia può fare molto ancora, aprendo gli occhi alle persone, soprattutto nei momenti forti della vita.
 Le nostre donne sono l’80 % almeno nelle nostre assemblee liturgiche. Sono inoltre attive nel volontariato: preparano la chiesa, fanno catechismo, preparano le feste e tante altre iniziative. Anche il nostro economo è una donna, ed è bravissima. Senza le donne chiuderemmo. Le donne sono anche lettrici nella Messa. Rita legge quasi sempre la seconda lettura. Ma non se la sente di leggere quella in cui Paolo invita le donne ad essere sottomesse. Sembra da ridere, ma non lo è.
Se diciamo che non corrisponde al pensiero attuale, perché allora non cambiare anche il ruolo della donna nella Chiesa? Io spero che alle donne sia concesso di accedere al diaconato. Sono convinto che molte donne abbiano i talenti giusti per accedervi.
I giovani sono fantastici, hanno tanto da dire e da dare. Dobbiamo lasciarli lavorare e sbagliare, non pensare di costruire noi per loro. In parrocchia abbiamo circa una decina di giovani sui 18 anni, Hanno le chiavi, vengono a parlare, a dare una mano, a festeggiare, a fare catechismo. Sono bellissimi, portano speranza e gioia. Dobbiamo tirare fuori da loro tutto il bello che hanno dentro, che è tanto!

 Come una famiglia

La malattia viene associata alle cose brutte e questa società vuole eliminare dalla sua vista le cose brutte, quindi anche la malattia. Sta avanzando un concetto di selezione che fa paura, che credevamo eliminato da tempo, grazie purtroppo anche alla memoria degli orrori dell’ultima guerra mondiale. In parrocchia si prega per gli ammalati, si aiutano gli ammalati ad uscire di casa e a far parte attiva della comunità. Quando arrivano in chiesa li si accoglie con gioia. Non è facile per loro mettere allo scoperto la malattia, perché ogni segno di debolezza viene visto come pericolo di vulnerabilità.
Dice Giuliana, della mia parrocchia: «Io sento di appartenere a una famiglia se lì sono amata, considerata, ascoltata e non giudicata. Per me una parrocchia è come una famiglia». Guardiamo alla società che abbiamo intorno e chiediamoci chi veramente è parte attiva nella parrocchia. Scriviamoci le categorie e spuntiamole. Alla fine questa è la cartina di tornasole per capire se davvero la nostra parrocchia è la casa di tutti. Chiediamoci chi manca e perché, in questa nostra famiglia. Oppure se consideriamo più uno che un altro. In una bella tavolata è bello se c’è un posto per tutti, se non manca nessuno. Così anche nella messa domenicale, così anche nelle feste, così anche nella catechesi. È un cammino lungo, che deve partire dal cuore e dalla mente. La Chiesa non è un’azienda: le comunità piccole non siano abbandonate o aggregate chiudendone anche le chiese. La parrocchia può e deve essere casa di tutti.