Nei quartieri dei senza-affetto

I tanti ragazzi senza una vera casa ci pongono silenziose domande

 di Gilberto Borghi
della Redazione di MC

 Ultima mattina di scuola prima delle vacanze di Natale di qualche anno fa. C’è la festa autogestita dagli studenti.

È un “must” in una scuola che si rispetti. Una specie di contentino dato ai ragazzi perché almeno per tre ore sentano la scuola come un loro luogo, dove non sono parcheggiati o spettatori, ma attori e protagonisti. Ma di ragazzi oggi ne sono venuti a scuola appena la metà. Arrivano Mara e Angela. «Hola prof. Questa musica pompa, no?».

 Una finestra spalancata

È strano come, a volte, anche solo una frase possa aprire un mondo. Mara è timida e introversa, occhi azzurri di ghiaccio, grandi, sempre accesi come due telecamere che registrano tutto, ma non lasciano trapelare nulla. Anzi no. Una cosa si: l’angoscia, la paura di essere viva e di essere lì. È arrivata l’anno scorso, dopo una brutta bocciatura in un’altra scuola. Vomitava ogni mattina che doveva andarci e i suoi compagni la chiamavano “la deficiente”. L’anno scorso, da noi, non ha fiatato per tutto l’anno. Ho faticato a farle dire due parole nell’interrogazione. Alcuni colleghi all’inizio si sono chiesti se era il caso di segnalarla, ma poi ci siamo resi conto che la testa funziona eccome, lucida e precisa. Ma ha un cuore devastato dall’abbandono e dal giudizio e dal panico.
E quella frase buttata lì durante la festa, quel gergo evidente, in cui si riconosce, mi son sembrati una finestra spalancata sulla sua anima, forse nella speranza che qualcuno oggi la possa vedere “dentro” senza giudicarla o deriderla. «Pompa eccome», rispondo, «infatti sto appoggiato alla macchinetta per non cadere in terra…». Ridono di gusto. «Ma prof non le piace? È Dead World degli Archeon! Un megatrip!». «Come no!», ribatto, «Io e gli Archeon siamo culo e camicia… col cantante ci sbronziamo insieme…». E mentre ride si lascia andare: «Prof, è un bonazzo da paura: io me lo sposerei». «Perché», ribatto, «tu ti sposeresti davvero?». «Ma no, prof, però per Michal potrei anche farlo. O forse no… non so… insomma i miei sono sposati, ma non vanno d’accordo per nulla e mica vorrei fare come loro». «Perché, come fanno?», le dico quasi sorpreso. «Mia madre è isterica, urla e s’incazza ogni cinque minuti, mio padre non fiata, gironzola per casa a testa bassa e quando non ne può più esce di casa sbattendo la porta». «Ah, però! Un bell’ambientino», faccio io. «Sa prof, quasi quasi mi scoccia che ci siano le vacanze, perché almeno a scuola la mattina un po’ respiro». «E per Natale che farai?». Salta su Angela, l’amica: «Una bomba di festa al Chihuahua, viene anche lei prof?». «Ma dai…, il Chihuahua è un cane piccolissimo, io non ci entro, son troppo grande!». Ridono abbracciate.

 Basterebbe un po’ di affetto

«Però insomma, il Natale é bello anche in casa», faccio io, «Avete fatto l’albero? il presepe?». «L’albero sì!», ribatte Mara, «l’ho fatto tutto io, da sola, l’altra settimana, ero così depressa che non sapevo come arrivare a sera e allora sono andata in cantina e ho preso fuori lo scatolone con gli addobbi e l’ho montato. Una goduria! Ma quando è rientrata mia madre mi ha urlato: «Ma sei fuori?! Guarda che casino hai fatto e adesso mi tocca pulire!». E mentre lo dice si fa seria e abbassa la testa. La voce si incrina e sento la sua tristezza salire. «Ma io ho continuato a guardare l’albero e le luci colorate e ho pensato che sarebbe stato bellissimo essere un pupazzo lì attaccato, invece che una persona in quella casa. Sa prof, a me basterebbe che per Natale mio padre mi guardasse, anche solo una volta, e che mia madre mi parlasse senza urlare».
Ho sentito un colpo dritto allo stomaco. Lei ha alzato gli occhi, un mare di lacrime. Ci siamo guardati per un attimo, infinito, silenzioso. Sparita la musica, sparita l’amica, sparita la scuola. Solo i nostri occhi. Ho sorriso e le ho passato la mano sulla testa. Ha appoggiato la faccia al mio maglione e si è asciugata gli occhi. «Scusi prof non so cosa mi è preso! Delle volte mi succede e non so perché». «Perché…? Perché hai voglia di vivere», le dico sottovoce, «hai voglia di far vivere quella bimba “impanicata” che ti porti dentro. A Natale è nato Gesù. Per tutti. Anche per te. Perché quella bimba che sei possa nascere di fronte a qualcuno che la accetta com’è, perché è bella così e merita di vivere com’è! Buon Natale Mara!». «Buon Natale prof».

 Le loro domande, la nostra umanità

Ecco. Parlare di ragazzi che non hanno una “casa” degna di questo nome, quasi degli “homeless affettivi” non è un dato astratto. Ragazze e ragazzi così, più o meno colpiti dall’assenza di affetto famigliare ne ho visti molti e continuo a vederne. Ma non mi riferisco principalmente alle situazioni eclatanti, di ragazzi che “la fanno grossa”, ma a quelle situazioni che sembrano ordinarie, anche buone a volte, ma che, ad uno sguardo meno distratto del solito, lasciano trapelare piccoli segnali di un grande disagio. Molto spesso sono situazioni nascoste dietro a facce tranquille, timide, anche studiose. Dolori difficili da leggere. Ma l’esperienza mi ha insegnato che più mancano segnali, e più profondo è il dolore vissuto e più difficile è dare loro una “chance” per curare le ferite.
La maggioranza di questi adolescenti ha precocemente capito che molti degli adulti di oggi vivono l’essere genitori per ruolo e obbligo, più che per scelta e amore. E allora accade che non riescano nemmeno più a credere ancora alla possibilità che questi adulti possano essere “smossi”. È un po’ come se dicessero dentro di loro: papà e mamma non ce la possono fare, perciò è inutile mandare segnali, più o meno forti, di disagio, affinché possano correggere il loro atteggiamento. Meglio metterla persa e trovare altre forme per sopravvivere.
Così compaiono ragazzi che sanno dare ai genitori ciò che essi chiedono, per tacitarli, e portare però la loro vita e il loro dolore sempre fuori casa, sempre da un’altra parte, laddove può essere condiviso. Così compaiono ragazzi che trasferiscono in una nicchia virtuale di giochi, di chat, di fantasy, la loro voglia di vivere, perché non c’è spazio per essa dentro la loro famiglia, che non hanno scelto e che non riescono a riconoscere come propria. Così compaiono ragazzi che accettano di pagare un prezzo altissimo, di cui loro non hanno alcuna colpa, per avere la possibilità di restare vivi, di sopravvivere ad un mondo adulto che li ha negati e dimenticati.
Noi continuiamo a chiederci: ma perché non seguono i nostri consigli? Perché sono così apatici? Perché non si muovono per il loro futuro e sprecano questo loro tempo in futili passatempi inconcludenti? Perché non hanno il senso del rischio, del valore del tempo, della bellezza, della curiosità? E il loro mutismo e la loro rassegnazione ci restano inspiegabili. Forse, se ci fermassimo, potremmo sentire le loro domande: Perché non mi vedi e mi fai sentire trasparente? Perché non ascolti mai davvero il mio cuore? Perché mi prendi in giro con stili e filosofie di vita che tu stesso sai essere false, ma alla quali non sai rinunciare nemmeno tu?
Sono loro che ci stanno dando una chance per restare umani!