Un padre missionario e una laica nell’inferno delle favelas di San Paolo del Brasile. Come la luce della resurrezione diventa efficace e reale, proprio là dove luce non sembra essercene più. Un recupero dell’umano, nel suo valore e nella sua dignità, come effetto del recupero del rapporto vivo e vitale con il Risorto. Missione Belem sembra davvero uscita dalla fantasia di un romanziere evangelico. E invece è una realtà.

a cura di Gilberto Borghi

 Bellissima Belem

Il fascino di una Chiesa in uscita 

La prima porta dell’inferno

«Fine gennaio del 2000. Stiamo attraversando il ponte dello “Chà”, camminiamo completamente disorientati.

Non conosciamo niente di questa “città mostro”, che è San Paolo del Brasile. Una domanda, quasi una stretta al cuore è presente dentro ciascuno di noi: come ci avvicineremo ai “meninos de rua” (ragazzi di strada)? Tutti li fuggono e li temono. Immaginiamoci noi che non sappiamo neanche parlare bene il portoghese! Solo Dio sa quanto desideriamo entrare nel mondo di questi bambini.
Nella nostra testa ancora danzano i dogmi invisibili della società: “questi ragazzini sono dei buoni a nulla”, “queste creature sono pericolose, sanno solo rubare, a loro piace solo intontirsi respirando i vapori della colla e del diluente…”. All’improvviso, alcuni “meninos de rua” malconci e chiassosi arrivano dalla parte opposta della strada. Non li avevamo mai visti. Per qualche motivo, che ancora oggi rimane misterioso, uno di loro attraversa la strada e si avvicina a noi. Senza paura e senza esitare, prende le nostre mani e chiama gli altri amici.
Nasce subito una simpatica amicizia. I bambini si appassionano per i crocifissi e le medagliette della Madonna che abbiamo al collo: “Zio, dammene una!”. Rapidamente, conquistiamo la fiducia di tutti e alla fine ci portano al “Mocó”, il loro nascondiglio. Per entrare, abbiamo bisogno di passare dentro un buco di 40 centimetri nella parete di un ponte. Con un po’ di difficoltà, ci riusciamo. E dentro venti ragazzini, poco più che bambini, abbandonati; bambine semi-nude in braccio ai compagni della stessa età, drogati dalla colla e dal tinner (diluente). Un fortissimo odore di marijuana. È una scena infernale. Tutto scuro, tutto brutto, tutto triste. Davvero, questa diventerà per noi la prima porta dell’inferno.
Senza che noi ce ne rendessimo conto, il Signore realizzava i suoi piani e ci accompagnava in questi tenebrosi bassifondi da cui non saremmo più us«citi. Sopra il ponte, le persone andavano e venivano ignorando la tragedia che si consumava pochi metri sotto i loro piedi.

 Il vangelo a Cracolandia

Evangelizzare l’inferno! Ecco la vocazione che nasceva in quella notte, dopo una lunga gestazione. A partire da quel momento, i sotterranei infernali della strada, dei marciapiedi e delle piazze, delle favelas... sono diventati la nostra casa e il “popolo della strada”, il popolo dei miserabili è diventato la nostra famiglia, a “Cracolandia”, la terra del crac».
Così padre Gianpietro Carraro, missionario italiano in Brasile, racconta la nascita della “Missione Belem”. Assieme alla missionaria Calcida da Silva Leste scelgono di vivere in comunione con i poveri di strada e gradualmente li invitano nelle loro case di accoglienza, certamente un posto più sicuro della strada. La logica non è quella dell’assistenzialismo, ma quella dell’evangelizzazione e della accoglienza cristiana: tutto ruota attorno alla preghiera e al lavoro, secondo il classico “ora et labora”.
Oltre alla cura fisica e psicologica, fatta tramite dei volontari, padre Gianpietro e Calida si occupano di questi bambini e ragazzi, per tutta la loro crescita umana e spirituale, mettendo al centro la gioia dell’annuncio di Gesù risorto: tutto in Lui è stato vinto, il dolore, la povertà, la sofferenza, l’ignoranza, la mancanza di futuro, l’ingiustizia, il mancato amore e anche la morte. Provano, cioè, come loro stessi dicono, «con immenso affetto ad evangelizzare l’inferno».
Poco dopo, Missione Belem approda ad Haiti, sconvolto dal terribile terremoto del 2010, facendo nascere il Centro Zanjo Makenson che oggi accoglie 1.200 bambini, tutti adottati a distanza, e mamme che imparano a prendersi cura dei loro piccoli, e dove giovani e adulti lavorano ed evangelizzano. Contemporaneamente nascono le “Case di Accoglienza” in Brasile e in Europa. In Italia sono molte le esperienze di evangelizzazione con lo stesso stile, alcune delle quali sono diventate stabili e hanno permesso di aprire case-accoglienza in cui il vangelo è la regola di vita: più di 60 nuclei di evangelizzazione e 1.500 laici impegnati.
In Italia, l’approccio a questa esperienza kerygmatica, fatta da laici per laici, si organizza in tre aree; Gruppi Ruah, Gruppi Jé-Shuá e Gruppi Cana. Rispettivamente sono una evangelizzazione kerigmatica e una Catechesi catecumenale per adulti, per giovani e per coppie sposi, che condividono tutti la scelta dei più poveri e delle periferie più emarginate. Dove la dimensione della carità, invece di essere un’appendice facoltativa, come spesso nei normali percorsi di catechesi, diventa il luogo essenziale ed iniziale da cui tutto nasce: il servizio ai poveri dell’inferno che fa nascere e dà corpo alla fede. A partire da qui, per chi accetta di proseguire, dopo aver vissuto l’esperienza di partenza, trova un percorso più strutturato.

 Percorso strutturato
  1. a) Diario spirituale: tutte le mattine meditazione del vangelo del giorno e scelta di un proposito, ad esso ispirato, da vivere durante la giornata, con esame di coscienza serale e confessione mensile.
  2. b) Formazione teologica: una domenica al mese è dedicata alla formazione incentrata sul Catechismo della Chiesa, a partire sempre da temi biblici.
  3. c) Formazione alla missione: un anno di preparazione specifica, dopo l’esperienza iniziale, che rende capaci di proporre l’annuncio ai poveri e nelle periferie del mondo, attraverso la propria testimonianza di vita e di incontro con Gesù.
  4. d) Se possibile, Messa e preghiera giornaliera del Rosario, come momenti quotidiani forti di fondamento della propria spiritualità.
  5. e) Partecipazione e contributo personale, secondo le proprie possibilità, all’attività missionaria delle zone del mondo in cui le necessità sono maggiori (ad esempio: Brasile e Haiti).
  6. f) Coltivare la comunione con la Chiesa locale, partecipando secondo il proprio carisma alle attività pastorali in sintonia con lo specifico della scelta prioritaria dei più poveri.

Ecco i caratteri di Missione Belem che meritano di essere sottolineati in particolare: evangelizzare in ogni luogo, in ogni situazione, lottando contro tutte le barriere, dove nessuno arriva, dove sembra che non ci sia più nulla da fare, portando l’amore di Gesù nel cuore dell’inferno, attraverso la preghiera e la condivisione totale delle sofferenze di questi fratelli; una esperienza ecclesiale che ridà voce e spazio allo Spirito che parla nelle persone “comuni”, laici per i laici, prima di tenere conto dei tradizionali ruoli ecclesiali; un’attenzione particolare a chi è fuori della Chiesa.
In tempi in cui la pastorale ordinaria, tante volte, non riesce più muoversi con efficacia in molti ambienti apparentemente “impossibili”, questo è un esempio, invece, molto preciso di una Chiesa in uscita, che non aspetta che l’uomo di oggi arrivi con le sue ferite aperte, ma che lo va a cercare là dove si è perso. Difficile non vedere in questo l’idea di papa Francesco, di una Chiesa come “ospedale da campo”.