«Seduti sulla panchina come segnalibri, persi nei loro cappotti, in attesa...» (Simon & Garfunkel). Segnalibri. L’anziano in carcere è un segnalibro sofferente nel capitolo di un libro sulla lentezza della giustizia e sull’inefficacia di un carcere afflittivo. Problemi più vecchi degli anziani che ne sono intirizziti. Nessuno legge i segnalibri, ma almeno si legga il libro.

a cura della Redazione di “Ne vale la pena” di Bologna

 Non è per vecchi

La pena detentiva e la pena dell’età

DIETRO LE SBARRE

 Lo “Zio” dietro le sbarre

Con questa penna sta scrivendo un cosiddetto “Zio”.

Così le persone considerate anziane vengono chiamate in carcere. È in un certo senso una forma di rispetto. A Bologna “zio” può assumere il significato di persona in età avanzata, ma anche rimbambita o “ismita”. In carcere invece lo Zio è riconosciuto come persona degna di considerazione e difficilmente è oggetto di scherno da parte dei detenuti più giovani.
Qui alla Dozza, secondo le mie stime, l’età media è intorno ai 40 anni. I processi in Italia sono interminabili e molti imputati vengono condannati in via definitiva dopo 10 anni, con esecuzione della sentenza a volte dopo altri dieci anni, quindi a volte anche dopo un ventennio dal reato: questo incide in modo rilevante sul fatto che le nostre carceri si stanno riempiendo di anziani, i cosiddetti Zii, come me. Quando arriva il momento di entrare in carcere, in età avanzata, dopo tanti anni dal reato, molti si sono costruiti una famiglia, hanno un lavoro, una casa… e all’improvviso vengono strappati alla vita per scontare una pena legata ad errori del passato, superati e ormai lontani.
La mia proposta sarebbe trasformare la pena detentiva in pena pecuniaria o in pene alternative legate alla cura del bene comune e della pubblica utilità. Il nostro ordinamento prevede che per gli ultrasettantenni la priorità vada data alla detenzione domiciliare o all’affidamento ai servizi sociali, ma questa è solo una possibilità che deve essere comunque vagliata dal magistrato di sorveglianza.

Maurizio Bianchi

 Pensionati in carcere

Sentendo la notizia dell’arresto di un settantenne nessuno si ferma a riflettere sul senso di ciò che accade. Per lo più risuona il solito ritornello: “giustizia è fatta”. Ma quale è il fine della pena detentiva? In teoria si sa, sarebbe la “rieducazione del condannato” ed il carcere non dovrebbe essere un luogo dove far passare il tempo senza un perché, ma un’occasione per favorire un processo di cambiamento. Nei fatti non è così per nessuno e tantomeno per chi ha già vissuto settanta o addirittura ottanta primavere. La detenzione per un anziano può diventare una tortura sia fisica che psicologica. In alcuni momenti i corridoi delle sezioni detentive sembrano i corridoi di una casa di cura.
Che senso ha parlare di rieducazione in questi casi? Perché i nostri legislatori non hanno mai cercato una soluzione di fronte a questa assurdità? Perché è davvero un’assurdità vedere vite e famiglie distrutte, o comunque seriamente compromesse, a causa della lentezza dei processi! Perché il percorso di vita intercorso fra il reato e l’esecuzione della sentenza non ha nessuna rilevanza? Se difficilmente la pena detentiva può dirsi giusta, certamente in questi casi è solo una palese ingiustizia, dal carattere ottusamente punitivo e afflittivo.

Alessandro Siino

 La pena della morte

Si può dare ancora un ruolo ed un significato a questo “finale di partita”, a questo ultimo atto dell’esistenza umana, cioè alla nostra vecchiaia? Non possiamo non interrogarci: è degno di una nazione civile e moderna tenere in cattività un condannato che sia stato colpito dal morbo letale della senescenza? Il senso di giustizia direbbe di sì, il senso di umanità si opporrebbe.
Ed è proprio al senso di umanità che si richiama la Costituzione italiana che all’art. 27 così recita: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato, Non è ammessa la pena di morte».
La presenza di anziani in carcere contraddice l’ipotesi del fine rieducativo della pena, di fatto impossibile data l’età elevata, e avvalora solo la tragedia di una sicura estromissione dal consesso civile o per morte del reo o, dopo il suo ritorno in libertà, quando, per i pochi anni che restano, l’attende ormai unicamente l’emarginazione e la solitudine senza più speranza e senza più decoro, nell’assoluta indifferenza.
La morte in carcere. Ecco che cosa dovrebbe scuotere veramente le coscienze. Non solamente la morte causata dai suicidi, ma anche quella naturale, per vecchiaia. La morte di una persona anziana è sempre dolorosa; dentro una struttura fatta di sbarre e di cemento è atroce.
La “vecchiezza” come anticamera della morte, l’attesa della propria fine come evento inesorabile rendono talvolta insopportabile il trascorrere del tempo; un tempo inutile e vuoto, senza scopo, una lenta agonia che può durare anche anni. Un supplizio, aggravato spesso dal decadimento fisico, che, a maggior ragione, mina la dignità umana della persona anziana ristretta in carcere e la rende invisibile e chiusa in sé stessa.
Perché un’altra idea di giustizia è possibile. Non quella della morte, ma quella della vita. Perché la pena non può trasformarsi in vendetta. A mo’ di insegnamento, deve condurre ad una convivenza civile ed ordinata. Purtroppo, invece, si continua ad assistere ad un’amministrazione autoreferenziale della coercizione penale e a dare troppo poca importanza ai valori etico-morali che dovrebbero, al contrario, guidare ed essere espressione di una comunità nazionale matura e libera da esagerate istanze securitarie nei confronti della devianza sociale, soprattutto di quella della “terza età”. Decisamente il carcere non è un posto per vecchi...

Roberto Cavalli

 Anziani, volontari e involontari

Dare del vecchio a qualcuno può apparire maleducato, e allora si usano eufemismi come “agé”, per alleggerire il peso della parola, che per molti sia dentro che fuori è ormai un tabù: parlare di vecchiaia significa parlare dell’imminenza della morte, e la morte fa paura. Eppure, è una realtà con cui dobbiamo fare i conti: la popolazione invecchia e anche la popolazione detenuta evidenzia una sempre maggiore senilità. Di solito siamo abituati allo stereotipo del giovane delinquente, mentre è più difficile immaginare un vecchio che commette reati; forse si tratta di reati commessi molto tempo prima? O forse sono reati commessi senza l’uso della violenza fisica, come frodi o illeciti di natura economica?
Sicuramente il peso della vita detentiva si acuisce per le persone anziane: penso alle problematiche sanitarie, di alimentazione, a tutti i disagi dovuti al sovraffollamento, sempre in aumento negli ultimi anni. Mi capita spesso di vedere gli anziani trascorrere tutto il loro tempo in saletta a giocare a carte, oppure chiusi in cella in uno stato di apatia totale. Eppure, ogni tanto si accende una luce… In prigione infatti vedo anziani detenuti, ma anche anziani liberi, i volontari, che, nonostante l’età, vengono ad incontrarci con senso di solidarietà ed umanità. E vedendoli non penso più alla loro vecchiaia, non penso alla morte, non ho pensieri negativi. Anzi penso che sempre, in ogni momento della vita, si può vivere in pienezza e si può essere “angeli” portatori di felicità.

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