Sono consapevole che scrivere le “impressioni a caldo” del Festival, quando ancora fanno male i piedi per quanto si è frullato su e giù, è molto rischioso, perché i ragionamenti potrebbero non filare tutti lisci, ma tant’è.

di Saverio Orselli

 Di emozione in emozione

Cronaca parziale di un festival molteplice

 Se la vittima si prende cura del carnefice (e viceversa)

Incominciamo con le stranezze da Festival: la prima persona che ho il compito di accogliere e accompagnare in piazza per il proprio intervento dedicato alle prove di dialogo, “Attraverso parole”, arriva con due auto,

nella prima ci sono solo uomini della scorta, nella seconda c’è lui con altri due “compagni” di vita, una vita strana, alla quale, dopo essere stato identificato, dichiaro subito d’essere distante anche se umanamente solidale. Poi, per un’ora e più, in piazza accade il “miracolo” del cellulare, visto che nessuno dei ragazzi delle scuole presenti pare smanettare sullo schermo, mentre Mario Calabresi racconta di possibili dialoghi tra le generazioni. Forse il più distratto sono io, che mi scopro a guardare, ai due lati della platea, le discrete presenze dei due angeli custodi calvi e con la giacca - nonostante il caldo offertoci da un clima anomalo, come stanno manifestando a poche centinaia di metri i ragazzi chiamati alla protesta da Greta - che cercano di proteggere le parole e la vita di un ragazzone alto, che nella sua esistenza dovrebbe aver già “dato” alla causa dei violenti.È strano, quando si inizia un nuovo Festival, si aspetta con ansia la fine e poi appena concluso si vorrebbe rivivere tutto quello che è successo. Dall’incontro dei volti dei volontari sorridenti (in genere quasi tutti) alle parole di pace, scaturite da incredibili cammini di dialogo, come quelle pronunciate dal palco, accanto al cardinale Zuppi (ora possiamo chiamarlo così, visto che ha già ricevuto la berretta) e davanti a una folla silenziosa, dalla figlia di Aldo Moro, Agnese, e da quella che fu nelle BR la carceriera dello statista ucciso, Adriana Faranda: ci hanno ricordato che, per quanto la storia certo non si cancelli, non è mai già scritta la conclusione, al punto che due persone, che si potrebbero odiare, possono arrivare a dire «oggi lei si prende cura di me e io mi prendo cura di lei», quasi fossero sorelle. Mentre ascoltavo quelle parole e guardavo sul maxischermo quei volti segnati non solo dal tempo, mi sono ritrovato a ripensare a quando, molti anni fa, in un numero di Messaggero Cappuccino (n. 3/1985 - “Oltre le sbarre”), pubblicammo gli interventi di alcuni brigatisti, compresa la Faranda (“In noi l’autocondanna precede l’autocritica e non esige alcun premio o riconoscimento”) e di Adolfo Bachelet, fratello di Vittorio, nella speranza che la storia non finisse semplicemente nell’odio; una speranza trasformata in realtà e, almeno per me, celebrata in un Festival del dialogo, ma anche della fraternità.

 Il ragazzo del campo suona sul palco

Di emozione in emozione, difficile ignorare la presenza sul palco nello spettacolo serale del venerdì di Giovanni, un ragazzino visto crescere al Campo di lavoro a Imola (accidenti, quant’è cresciuto!) e oggi musicista affermato e felice, come mi ha confermato prima di suonare per la piazza le sue due chitarre elettriche e accompagnare gli struggenti racconti di “Un etto d’anima netto”, di Annalisa Vandelli, una fotoreporter che riesce a fotografare la vita, le vite, con il cuore in mano.
Con il cuore in mano dovrebbe essere difficile anche suonare la chitarra e cantare, ma a Erica Boschiero riesce incredibilmente facile questo gioco da equilibristi, mandando in sintonia il proprio battito con quello degli spettatori, ammaliati dalla sua voce, capace di rendere più facile seguire il racconto di Stefano Allievi sulle migrazioni, con le paure e le angosce che nascondono.
È sabato e, per un lunghissimo attimo, chissà se, come in parte è capitato a me, la dotta Bologna è andata in difficoltà di comprensione dei linguaggi: a distanza di poche centinaia di metri gli uni dagli altri, nella piazza Maggiore si parlava di dialogo con la Cina, con Romano Prodi e padre Antonio Spadaro protagonisti, in Piazza 8 Agosto si davano il turno i politici per un dialogo a “senso unico” e in piazza Minghetti, in un silenzio rotto da mani agitate e concitate, dialogavano tra loro decine e decine di aderenti all’Associazione Sordi dell’Emilia-Romagna.
Più ci penso e più mi rendo conto che bisognerebbe affidare le impressioni a caldo a chi ha avuto la possibilità di girare un po’ dovunque e non a chi l’ha fatto ma in cerca di qualcuno, di un relatore da accompagnare, di un frate incaricato di presentare, della onnicercata Cinzia, sempre pronta a fornire risposte rapide e rassicuranti. Le mie impressioni a caldo, purtroppo, non rendono perciò giustizia a tutte le persone coinvolte nelle tante, davvero tante, attività proposte durante i tre giorni. Spero mi scuseranno.

 Quando canta la piazza

Qualcosa però sono riuscito a seguirlo dall’inizio alla fine, come lo splendido concerto di Simone Cristicchi, accompagnato dall’Orchestra Collegium Musicum Almae Matris, dell’Università di Bologna. Cristicchi ha dimostrato che, se i contenuti ci sono e le note sono adeguate, si può cantare per due ore senza che nessuno si alzi e se ne vada (anche se chi non aveva trovato posto a sedere, un po’ ci contava). La sua capacità di entrare in sintonia con la gente si è resa ancora più evidente quando, scesi gli scalini di San Petronio, si è mescolato al pubblico e, nei panni provvisori di un suggeritore, è riuscito nell’impresa di scambiare il proprio ruolo con gli spettatori, facendo cantare a tutta la piazza un’intera canzone difficile come “Io che amo solo te” di Sergio Endrigo, nel ricordo di questo grande musicista e di tutti quelli che, come lui, nell’immediato dopoguerra, sono stati costretti a fuggire, perseguitati, da Istria e Dalmazia, per arrivare in Italia e subire altre forme di persecuzione. Quando poi, nell’ultima canzone - la splendida “Abbi cura di me” - sono arrivate le parole «Abbracciami se avrò paura di cadere / Che siamo in equilibrio / Sulla parola insieme / Abbi cura di me… / Abbi cura di me…», vedere tutt’attorno coppie abbracciate, in un ascolto quasi spirituale, ho capito che le parole, scoccate dalle note, avevano davvero attraversato in lungo e in largo la piazza.
Non meno emozionante, anche se con toni tutt’altro che rasserenanti, è stato l’altro incontro che ho seguito per intero, l’ultimo in programma in piazza, “Scienza vs etica?”, con padre Paolo Benanti e il matematico Giuseppe O. Longo impegnati a far capire ai tanti presenti a che punto sono arrivati (o si sono già spinti) gli esperimenti sulle macchine intelligenti, capaci di trasformarsi, migliorandosi in autonomia. Un mondo affascinante, con tanti aspetti che turbano, come il passaggio che hanno dedicato ai robot che nel mondo militare vengono programmati per uccidere, da utilizzare al posto degli umani in caso di guerra: ma chi ci assicura che, nell’apprendere e nell’automigliorarsi, queste macchine non decidano di allargare l’elenco delle potenziali vittime? La risposta a questa domanda come a tanti altri dubbi non l’abbiamo, ma almeno, con il Festival, abbiamo seminato in tanti la domanda, “Attraverso parole”.