Mamma, ho perso la bussola

Riflessioni e punti fermi sui cosiddetti “figli della provetta”

 di Maria Elisabetta Gandolfi
caporedattrice de Il Regno-attualità

 Spesso ho avuto l’impressione di essere nata nel secolo sbagliato, tanto più quando si trattava di dare risposta a questioni vitali come lo è il desiderio di un figlio.

Mi pareva un tema del tutto ovvio e invece faticavo a trovare le parole corrette per definirlo. Agli inizi degli anni Novanta stavo preparando la tesi di laurea in Scienze politiche: si trattava d’analizzare come la legislazione europea affrontasse la regolamentazione della cosiddetta procreazione medicalmente assistita. Un tema nuovo e vastissimo in cui entravano prepotentemente non solo le politiche sociali ma anche gli aspetti psicologici, culturali e i riferimenti religiosi, dichiarati o meno.
La letteratura era già vastissima: relazioni di studiosi e comitati etici, articoli scientifici, dati statistici (pochi); ma il dibattito politico – segnatamente europeo –, nonostante avesse già affrontato la prepotente entrata del biologico nel novero dei diritti, era alle prime armi e soprattutto sembrava essere scosso dalle fondamenta.

 Dal desiderio al diritto

Avevo qualche idea in merito, ma trovavo spiazzante non trovare un senso generale per inquadrare fenomeni a cui non bastava dare una risposta secca in termini di un “sì” e di un “no”, come invece spesso le istituzioni religiose sono state tentate di fare. Alcuni dati scontati, come il fatto che un figlio nasca all’interno di una coppia formata da un uomo e da una donna che (si spera) lo desiderano, e che i due genitori siano in carne e ossa, per quanto sciagurati possano essere, non lo erano più. Di fatto l’ampliarsi della scienza medica come risposta all’infertilità ha aperto possibilità prima inimmaginabili, con conseguenze inedite per la genitorialità e la filiazione.
Il fatto poi che la medicina potesse intervenire non solo per facilitare l’incontro dei gameti di una coppia, ma anche per destinarlo a un tempo futuro (con la crioconservazione), addirittura dopo la morte di uno dei due; che potesse con l’inseminazione artificiale inserire nella coppia genitoriale un terzo estraneo il “donatore” o la “donatrice”; che consentisse che il lungo tempo della gravidanza fosse gestito da una donna diversa dalla madre; che potesse quindi “superare” i confini della coppia eterosessuale, tutto questo ha portato a un profondo cambiamento di senso del desiderio di un figlio che sempre più ha assunto i toni di un diritto.
L’idea del sociologo tedesco Niklas Luhmann di sistemi sociali sempre più differenziati, sempre più autoreferenziali e per questo sempre più refrattari a una lettura (un tempo si sarebbe detto religiosa) onnicomprensiva della vita focalizzava bene la necessità di una riflessione ancora più approfondita sul senso di questo movimento centrifugo sempre più accelerato. Confesso che non ho trovato tutte le risposte, ma alcuni punti fermi da cui poter ripartire.

 Servono dei limiti

Innanzitutto, analizzando il materiale informativo dei primi centri che allora all’estero e oggi anche in Italia si occupano della cosiddetta medicina della riproduzione, emergeva un’alleanza sempre più stretta ma anche perversa tra la “sofferenza” di chi non poteva avere figli e il desiderio dei singoli centri di poter offrire il migliore servizio, ovvero di vedere finanziate le proprie ricerche. Carriere di alcuni medici costruite sulla pelle, più o meno inconsapevole di chi ricorreva loro per poter stringere tra le braccia un figlio.
Secondo: il dibattito per la regolamentazione ha chiarito che è necessario intervenire rispondendo ad alcuni interrogativi che vanno al cuore della vita umana: Chi è titolato a dire e in base a quali criteri chi può accedere a queste cure? Devono essere lasciate al privato o gestite dalla sanità pubblica? Quali limiti darsi? Quale il prezzo pagato in quanto coppie per poter avere un figlio? A tutti i costi?
Tralascio i casi-limite (ad esempio figli nati dopo la morte dei genitori, nati per errore da genitori “etnicamente” diversi; madri ben oltre l’età fertile…) che pure sono stati utili per comprendere la posta in gioco. Un dato però mi colpì molto: la testimonianza di uno scienziato francese – laicissimo – Jacques Testart sull’eticità dell’operato pioneristico di certi laboratori dove – raccontava – i “donatori” di seme maschile erano gli stessi ricercatori, studentelli universitari in cerca di un arrotondamento. Questo è il terzo punto: anche alla sperimentazione occorre porre limiti. Da quando scrisse L’Oeuf transparent (1986), è passata molta acqua sotto i ponti, e il suo dichiarato ritiro dalla ricerca medica per quegli eccessi cui era arrivata fece scalpore. Tra l’altro egli sollevava anche l’interrogativo degli embrioni detti “sovrannumerari”: a chi appartengono se la coppia si separa, se uno dei due muore, se nessuno li “reclama”?

 Il richiamo della biologia

Non ero ancora sposata e questi dubbi m’inquietavano. Poi ho avuto la grazia di poter avere tre figli. Gli studi erano ormai ampiamente alle spalle ma la potenza di quel desiderio mi era chiara, nonostante ora facesse i conti con figli reali e non solo immaginari. Di fronte al figlio reale e non al suo fantasma si può comprendere come divenire genitori naturali sia un percorso molto più simile a quello che porta a divenire genitori adottivi, perché spogliati dall’illusione che l’eredità dei geni possa bastare da sola a farci essere buoni genitori.
Infine, nel giugno scorso, un ritorno di fiamma. Un lungo articolo sul New York Times: «A Family Portrait: Brothers, Sisters, Strangers» (26.6.2019) mi riporta indietro di quasi trent’anni: un giovane statunitense, figlio di due donne, che da sempre sa di essere stato concepito tramite un “donatore”, scopre d’avere 32 fratellastri, nati cioè dal medesimo donatore. E che alcuni si erano già messi in contatto tra loro per cercare il “padre” biologico. Gira gli USA e li ritrae uno per uno. Una galleria interessantissima per come li vede il fotografo: fratelli e allo stesso tempo estranei.
Ecco l’ultimo punto: per quanto tecnicizzata, medicalizzata o a volte forzatamente interrotta da cause di forza maggiore (l’essere orfani) la matrice biologica delle proprie origini è una parte fondamentale dell’identità di ciascun figlio, di ciascuno di noi in quanto figli, rispetto alla quale magari distanziarsi e ribellarsi. Non è sufficiente infatti pensarsi come nati solo da un’idea e da una volontà: moltissimi dei figli della provetta (e adottivi) hanno cercato per anni e con ogni mezzo di poter conoscere padri e madri biologici. Il desiderio deve farsi carne e solo da lì può essere portato a compimento.