Mamma Francesco e i suoi fratelli

Nella comunità francescana i superiori devono essere madri responsabili ed esemplari

 di Stefania Monti
suora clarissa cappuccina di Fiera di Primiero

 Cercando di evitare facili considerazioni di remoto stampo freudiano, sappiamo tutti che Francesco non ricorre al lessico paterno, a meno che non si parli del Padre che è nei cieli: non lo usa quando si tratti della relazione con i suoi compagni.

Personalmente non credo che questo dipenda, appunto, dal cattivo rapporto col padre. Dopo la restituzione di abiti e denaro di fronte al vescovo (cfr. FF 1043) - momento in cui vengono citate le prime parole del Padre nostro -, il suo riferimento è piuttosto Mt 23,9. Ma in ogni caso Francesco non si sente padre, né esercita una paternità.

 Dalla parte degli ultimi

Il conflitto col padre comunque deve essere stato molto profondo. Quando Francesco “si converte” è, per quell’epoca, non un ragazzo, ma un uomo maturo e il problema per lui non è la rinuncia al denaro, quanto l’incontro con il lebbroso, e la conseguente scelta di mettersi dalla parte dei minores. Nel Testamento infatti parla della sua conversione in questi termini. Del resto è solo essendo uno dei minores e condividendo questa condizione che si può essere veramente fratelli. In fondo la povertà non è un valore in sé, ma è ordinata alla fraternità e alla carità verso tutti, i poveri in particolare.
Penso – e non lo penso solo io, naturalmente, – che sia questo che davvero ha creato una irrimediabile frattura tra Francesco, che da mercante aspirava a diventare cavaliere, e il suo ambiente. E rispetto a un tale atto di rottura anche la madre ha potuto fare ben poco. Tuttavia Francesco, che, come abbiamo accennato, non ama il lessico paterno e quindi parla sempre di fratres e non di filii, usa invece il lessico materno e vi fa ricorso sempre in contesti giuridici, che poco hanno di affettivo. Il caso più manifesto è la Regola di Vita negli Eremi (FF 136-138), ma anche Rnb 11 (FF 32) e Rb 8 (FF 91).
Jacques Dalarun ha notato che in tutti questi casi il testo tratta di un modo e di uno stile di governo. Il responsabile della fraternità se ne occupa non nella maniera, potremmo dire, verticistica e gerarchica di un padre, ma con la sollecitudine di una madre. In questo, lo stesso Dalarun vede una presa di distanza dalla conduzione della comunità da parte di un abate benedettino, che, in qualche modo, ricalca la figura del pater familias romano. Quella di Francesco è una comunità senza capi, dove egli stesso è una sorta di fratello maggiore al quale spetta il compito di governare con l’esemplarità della vita.
L’altro testo “materno” da prendere in esame è il biglietto a frate Leone. Anche qui Dalarun è illuminante, perché interviene sulla traduzione. Il testo italiano che siamo soliti leggere suona “così dico a te, figlio mio, come una madre” (FF 250), ma sarebbe meglio intendere “come madre” senza l’articolo indeterminativo, cioè “in qualità di madre”, riportandoci all’ambito del governo e di uno stile di vita da seguire, non già di un rapporto affettivo.

 La visione dello specchio

È all’interno di questo quadro che possiamo e forse dobbiamo leggere il lessico materno di Chiara, certo più ampio ma con qualche variante. Vale la pena tuttavia iniziare questo percorso da un testo meno conosciuto che non Regola e Lettere, ma di certo sorprendente. Mi riferisco alla cosiddetta “visione dello specchio” riportata nel Processo di canonizzazione (FF 2995), in cui, bene o male, si parla della maternità di Francesco.
Di questa visione o sogno, Chiara racconta che le pareva di portare a Francesco un recipiente d’acqua calda e un asciugatoio, salendo senza fatica per una scala ripida. Giunta in cima, Francesco le avrebbe offerto la mammella dicendo: “Vieni, ricevi e suggi”. Qualche goccia di latte le resta sulle labbra e raccogliendola con le dita le pare oro chiaro e lucido come uno specchio in cui può vedersi distintamente. Fin qui la visione, in cui ci sarebbero diversi elementi da considerare. In essa, benché Chiara chiami “padre” Francesco in diverse altre occasioni, vediamo che egli invece esercita qui una funzione materna rispetto a Chiara, funzione che verrebbe da intendere come il magistero del suo insegnamento e soprattutto del suo esempio, a partire da quanto visto del rapporto del santo con i suoi compagni.
Del resto nella Scrittura il latte è visto sia come segno dell’abbondanza (la terra dove scorre “latte e miele”) sia come bevanda spirituale che rappresenta l’insegnamento e la parola di Dio (1Pt 2,2).
La figura materna quindi, più che affettiva, è magisteriale e come tale genera alla vita vera.
Ugualmente non pare opportuno insistere sullo specchio come semplice elemento del corredo femminile. Lo specchio è piuttosto un oggetto che rimanda un’immagine e Chiara si specchia nel petto di Francesco come in qualcosa che le rivela quel che è veramente.

 Un lavoro parecchio difficile

Quanto al resto, in fondo anche per Chiara il termine dominante pare “sorelle” e quando compare “figlie” è sempre in coppia col precedente. Si ha perciò “sorelle e figlie” tanto al plurale quanto al singolare, riferito ad Agnese di Praga. Del resto, quando parla di sé si qualifica “madre e sorella”.
Il sospetto è che questo “madre” e “figlia/e” provengano da un linguaggio consolidato più che da una sensibilità specificamente clariana o, se vogliamo, femminile. In un caso ricorre l’endiadi “abbadessa e madre” (FF 2775) dove è facile sentire l’influsso della cancelleria pontificia, nonostante il testo riguardi la sostituzione dell’abbadessa nel caso della sua inadeguatezza, così come Francesco aveva stabilito per i frati circa il ministro generale (FF 97).
Anche quando Chiara si rivolge ad Agnese di Praga chiamandola “figlia” (FF 2910, per esempio), va tenuto conto che si tratta sempre di lettere d’occasione: Agnese chiede consiglio sulla vita e la conduzione della comunità, sulla povertà e sul digiuno. Non si può dire che sia un contesto giuridico, ma non siamo neppure entro un epistolario privato e affettivo. La maternità di Chiara, a ben guardare, assomiglia molto a quella di Francesco: è l’esercizio di una responsabilità e di una esemplarità.
Dovremmo anche ricordare che la psicologia e l’attenzione ai sentimenti umani come la conosciamo oggi sono invenzioni recenti. All’epoca dei nostri santi la sensibilità individuale non era tenuta in conto, non esistevano “matrimoni d’amore”, ma solo matrimoni combinati e la maternità era un dovere pesante e rischioso per una donna. Lo era per le donne del popolo che poi dovevano provvedere ai figli; lo era per le donne di buona condizione che dovevano assicurare una continuità patrimoniale alla famiglia. Per tutte c’era il rischio di morire di parto o per infezioni post partum. Inoltre fino a pochi decenni fa era molto elevata la mortalità infantile. Essere donna e madre era un difficile lavoro. Il fatto che Francesco si connoti così fa intravvedere tutto il travaglio legato alla nascita e alla crescita della sua comunità. A parte gli aspetti giuridici del linguaggio, credo che Chiara fosse profondamente consapevole di questo travaglio e lo abbia del tutto condiviso.