Sordi di tutto il mondo, uniamoci

La difficoltà dei battezzati di allacciare una buona comunicazione partendo dall’ascolto

di Alessandro Casadio
della Redazione di MC

Image 075La buona regola di ascoltare

In ogni comunità è di primaria importanza che la comunicazione sia viva, frequente, sincera e costruttiva. Questo vale doppiamente per la Chiesa, alla cui costruzione del dialogo interno ed esterno convergono anche la necessità della correzione fraterna e l’urgenza dell’apostolato: quella, cioè, che ogni referto del nostro annunciare, sia saturo della buona novella che desideriamo condividere. Ma per far questo, ogni buon comunicatore sa che deve anche imparare ad ascoltare il proprio referente, conoscerlo, comprenderlo, affinché ogni messaggio susciti interesse propositivo e faccia scaturire un’apprezzabile sinergia. Questo è forse uno degli aspetti più carenti nella comunicazione di noi Chiesa, sia per la tentazione individualista comune alla società in cui viviamo, ma anche per qualche eccessiva alterigia che abbiamo nel dispensare verità, delle quali ci sentiamo, purtroppo, illuminati portatori e monopolistici dispensatori, rendendoci sordi ai segni e alle persone che normalmente incontriamo. Abbiamo perfino coniato un’orribile definizione “non negoziabile” per allontanare qualsiasi ricerca sulle questioni che ci sono più care come credenti, finendo col qualificarci quali miseri custodi di surgelati. Non mettendo mai sul tappeto del dibattito e della verifica le nostra verità di fede, rischiamo un pochino di alienarcele, considerandole elementi di una sfera che non appartiene al nostro mondo.

Come laici e come presbiteri

Come laici, infatti, abbiamo un contatto languido coi valori che perseguiamo, troppo barricati come siamo dietro le scuse del poco tempo disponibile, per pensare intensamente al Regno di Dio. Va da sé che la sciacquetta di religione che finiamo col vivere ci rende vulnerabili di fronte a qualsiasi vero problema esistenziale, lasciandoci tramortiti. Senza motivazioni etiche pregnanti, abbiamo scelto la difesa a oltranza, temendo e bollando tutto e tutti come “anticristo”. Nel panorama multi-messaggio dell’era moderna, dove la buona novella farebbe un figurone per creatività ed efficacia, ci siamo configurati come sordi e abbiamo trasformato i tabernacoli in sarcofagi. Di conseguenza, come sappiamo, la nostra lampada messa sotto il moggio perde vigore e significato, mentre in qualità di ipotetico sale del mondo dovremmo imparare a scioglierci di più, condividere e mescolarci con esso per sprigionare il nostro sapore: la sordità porta solo sterile e insipida cristallizzazione.

Come presbiteri dovremmo solo ricordarci di ciò a cui siamo stati chiamati: essere pastori che si arrabattano per il loro gregge, considerando le novantanove pecore al sicuro (se mai esistono davvero) un po’ tontolone e ancora incapaci di osare di vivere pienamente la loro vita, col rischio che comporta. Dovremmo quindi gettarci alla ricerca di quell’unica pecorella dispersa (ma cercando bene, non è remoto che ne troviamo altre), perché da sola rischia veramente di non farcela e, per quanto scaltra ed intraprendente sia, come tutti, ha bisogno di qualcuno, che certamente possiamo essere noi. Ristagniamo troppo spesso, invece, sulla parola “prudenza”, che nella traduzione simultanea significa immobilismo esasperante, e ai fedeli che si rivolgono a noi, magari appesantiti dai guai che hanno incontrato o che si sono maldestramente procurati, finiamo spesso per proporre cammini impercorribili o progetti precostituiti o, peggio ancora, non riusciamo a cogliere la vera essenza del loro malessere, ingabbiati come siamo sempre, perché no anche noi, dal dispotismo del poco tempo, a fare qualcos’altro. Dobbiamo recuperare la relazione, perché se pur parlassimo come angeli, conoscessimo ogni mistero, facessimo miracoli, ciò che conta alla fin fine è la carità che unisce in un rapporto vincolante e fraterno. Noi che siamo stati chiamati a trasmettere il grande dono di Dio del perdono, esperienza umana estremamente liberante e latrice di gioia profonda, dovremmo aiutare le nostre comunità a vivere sapendosi perdonate e col desiderio di fare altrettanto. Includendo in questo abbraccio tutta la gente delle nostre parrocchie e non solo quella parte esigua che viene a messa. Riconoscersi nel segno del perdono vuol dire avvertire come lacerazione l’indifferenza e la disattenzione, che spesso gravano nei nostri rapporti sociali.

Image 085Come Chiesa

Come Chiesa, forti dello spirito di comunione, possiamo dilatare l’ascolto e la capacità di accoglienza, buttandoci a capofitto nelle cause perse. Perché i mali del mondo non vengono fronteggiati dalle capacità e dalla debolezza di un singolo, ma da un’intera comunità. Dimostrarci sordi è innanzi tutto un rinnegare il nostro essere insieme e le sue incredibili prerogative. Nella concretezza: quell’atteggiamento virtuoso di massima attenzione, che singolarmente travalica le nostre possibilità, può essere recuperato comunitariamente, laddove la condivisione autentica annichilisce le peculiari debolezze ed esalta le virtù.

Per fare questo occorre che abbandoniamo un po’ del nostro trionfalismo, di quando viviamo come in un mondo a parte, forti delle nostre sicurezze, o quando sembriamo disdegnare la compagnia di non credenti, rinchiudendoci nel fortino esclusivista della cattolicità: scuole, mezzi di comunicazione, associazionismo. L’ignoranza della religione, che tante volte riscontriamo e lamentiamo nella realtà che ci circonda, non dipende dal recupero vagheggiato di vecchie formule di catechismo, ma dall’invertire una rotta centripeta, che rischia solo di trasformarci in ghetto, per testimoniare con umiltà, nella consapevolezza del nostro limite ma anche nella coscienza della forza di essere comunità, i nostri precipui valori. Per essere in sintonia proficua con lo Spirito Santo, zefiro leggero che non spezza lo stelo della spiga, talmente discreto nel suo agire da non poter dire da dove viene e dove va. Dobbiamo abbassarci a raccogliere le voci di fatica, che ci provengono dalla realtà che viviamo, dobbiamo ascoltare i loro lamenti e, senza presunzione, porci al loro fianco, scoprendo quanto loro abbiano da insegnarci. Del resto, non ha fatto la stessa cosa con noi anche il buon Dio?