Bibbidi Bobbidi Bu!

La poesia ci aiuta a trasformare la realtà, facendone emergere la bellezza

 di Fabrizio Zaccarini
della Redazione di MC

 I sassi non galleggiano. Eppure, un sasso, ben scelto e ben lanciato può rimbalzare sul pelo dell’acqua diverse volte.

Capita che i rimbalzi siano così fitti che un semplice sasso appaia transmutato in “sasso-scafo”. Le transmutazioni hanno fascino, perciò da ragazzo, lungo il fiume, di sassi nell’acqua io ne ho lanciati proprio tanti.
La poesia è parola transmutata o, piuttosto, ricondotta alla sua primordiale capacità comunicativa e creatrice. «In principio era la Parola e la Parola era presso Dio» e quando «Dio disse sia la luce, la luce fu». Colui che parlando crea la luce, crea l’uomo a sua immagine e somiglianza e lo chiama a partecipare della sua parola creatrice, condusse, infatti, all’uomo tutti gli animali e «in qualunque modo l'uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome». Il creatore stesso fu il primo dipintore poeta e l’uomo, ben presto, fu invitato a seguirlo a ruota.
Per questo dovrebbe profumare di poesia, cioè non di stucchevoli sdolcinatezze, ma di consistente, imprevista e ruvida novità, ogni nostra preghiera. Lo “spretato” Ferdinando Tartaglia, nella sua allucinata semplicità di un nuovo Jacopone da Todi, è uno dei migliori esempi che io conosca. «Alzatemi gli occhi / alzatemi le gambe / alzatemi tutto / alzatemi il cuore. // Io sto affogando / io sto affogando / ne l’oceano d’amore. // Datemi un bagnino / datemi un soccorritore // Io sto affogando / io sto affogando / ne l’oceano d’amore. // […] Solo il tuo bocca a bocca / voglio adesso Signore. // Io ormai son morto / nel tuo oceano d’amore» (Io sto affogando, da Esercizi di verbo).

 Pregare e poetare

La poesia cerca la bellezza, e visto che «Tu sei bellezza» (san Francesco, Lodi a Dio altissimo), allora, almeno in una prospettiva di fede, la poesia ha un legame stretto con la preghiera. La prima insegna ai credenti in preghiera a non accontentarsi di una modalità espressiva qualunque. Se nella nostra preghiera comunitaria, ogni giorno nelle lodi e nei vespri, attraverso i salmi e gli inni del Nuovo e dell’Antico Testamento, la Chiesa assegna alla poesia uno spazio così vasto, forse dovremmo ricavarne un invito a ricercare con passione la bellezza, anche nella preghiera personale. D’altra parte, la preghiera invita i poeti a spingere lo sguardo, oltre i poveri risultati già acquisiti nelle loro botteghe artigiane, non solo verso il non ancora nominato, ma piuttosto fino all’Innominabile, per ricordare che non tutto può essere catturato e detto dalla parola umana, per quanto bella e sapientemente ispirata, pensata e modellata.
Chi osa prolungare tanto la profondità del suo sguardo, come Cristina Campo, sta in questo mondo presentendo che, in esso, ve n’è un altro coimplicato, che, se non può essere totalmente posseduto dall’uomo, vuole però essere da lui accolto e conosciuto. «Due mondi - e io vengo dall'altro // Dietro e dentro / le strade inzuppate / dietro e dentro / nebbia e lacerazione / oltre caos e ragione / porte minuscole e dure tende di cuoio, / mondo celato al mondo, compenetrato nel mondo, / inenarrabilmente ignoto al mondo, / dal soffio divino / un attimo suscitato, / dal soffio divino / subito cancellato, / attende il Lume coperto, il sepolto Sole, / il portentoso Fiore. // Due mondi - e io vengo dall'altro» (Diario Bizantino, da La tigre assenza).
E se il mondo ulteriore sembra non farci visita in mezzo alle fatiche di questo mondo, allora è Clemente Rebora che ci aiuta a rimanere dentro alla tensione di chi talvolta non sa di aspettare, eppure di quella tensione non può liberarsi: «Dall’imagine tesa / vigilo l’istante / con imminenza di attesa – / e non aspetto nessuno: / nell’ombra accesa / spio il campanello / che impercettibile spande / un polline di suono – /e non aspetto nessuno: / fra quattro mura / stupefatte di spazio / più che un deserto / non aspetto nessuno: / ma deve venire, / verrà, se resisto / a sbocciare non visto, / verrà d’improvviso, / quando meno l’avverto. / Verrà quasi perdono / di quanto fa morire, / verrà a farmi certo / del suo e mio tesoro, verrà come ristoro / delle mie e sue pene, / verrà, forse già viene / il suo bisbiglio» (Dall’imagine tesa, da Canti anonimi).

 Hitler contro Leopardi e gli altri

Tuttavia, bisogna urgentemente tornare alla concretezza del nostro oggi, dato che, come topi in trappola, siamo tanto tentati di rimanere incollati alla vetta rovesciata nell’abisso delle nostre paure fantasmatiche che, facilmente e fatalmente, giustificano le lapidazioni verbali più rassicuranti e brutali (ebrei, zingari, prostitute, negri, omosessuali, preti e tanti altri ancora, a modico prezzo, siori e siore, con soddisfazione ognuno, orsù, scelga il suo bersaglio). Ma allora è possibile oggi fare poesia? Ancora la poesia esercita fascino?
Non so se sia una risposta sufficiente, ma, a questo riguardo, ritengo utile rimandare ai muri di Fiumicino. Molte svastiche vi fanno oscenamente mostra di sé, nella notte tra il 27 e il 28 maggio scorsi; una mano senza nome copre le svastiche con poesie di Leopardi, Penna, Shakespeare e Ungaretti. La vicenda mostra non solo che per qualcuno ancora la poesia ha fascino, ma che qualcuno, a quel fascino, attribuisce un ruolo umanizzante di grande importanza. Se vogliamo abitare umanamente il nostro tempo e lasciare a chi verrà dopo di noi un mondo umano, non solo possiamo, ma direi che dobbiamo, a costo di sembrare sciocchi e presuntuosi, provare a fare poesia, non solo scrivendo le “poesie”, ma soprattutto lasciando che la bellezza emerga dai fondali della nostra vita.
La poesia nomina il presente, intuendovi vagamente qualcosa del futuro che in esso si sta preparando. E qui la cosa migliore è mettersi in ascolto di Pier Paolo Pasolini e del suo Alì dagli Occhi Azzurri, «uno dei tanti figli di figli, / scenderà da Algeri, su navi / a vela e a remi. Saranno / con lui migliaia di uomini / coi corpicini e gli occhi / di poveri cani dei padri / sulle barche varate nei Regni della Fame. Porteranno con sé i bambini, e il pane e il formaggio, nelle carte gialle del Lunedì di Pasqua. Porteranno le nonne e gli asini, sulle triremi rubate ai porti coloniali. / […] / Anime e angeli, topi e pidocchi, / col germe della Storia Antica» (La profezia, Poesia in forma di rosa).

 È sbucato un aquilone

Non discuterò con chi pretende di capire quale sia l’utilità della parola poetica, poiché essa per sua natura, come i sassi sull’acqua che infine a fondo ci vanno, non può subire il criterio di utilità. Piuttosto ricorderò il caso di Agostino Venanzio Reali, che, seguendo Cristo, ha dovuto drammaticamente «imparare l’obbedienza dalle cose che patì» e, in poesia sul letto del suo ultimo dolore, ha pregato così: «Mio Dio / sono pieno di peccati / come un carro pieno di fieno / di un tempo. Ma so che basta / una goccia del tuo sudore / per tutto incenerire / quel ch’è mio» (Carico, da Le paglie).
Lo stesso Venanzio si consegnerà sentendo che anche quell’ultimo tratto di strada si compiva in un’esigentissima e umanissima chiamata all’amore. «Contro l’intonaco bianco / ride un parasole / contro la mia nube / sbucato è un aquilone. / Addiziono le cose, i volti / nello spazio che mi sgretola / e - per contrarmi - da me / sono troppo lontano… / tuttavia l’amore / è una strada che dilunga / dal crocevia, un sogno / antelucano che esala / in un crepuscolo d’ali» (Evasione, da Le paglie).
E se qualcuno per invitarmi ad essere più realista vorrà ricordarmi che a Fiumicino nuove svastiche hanno coperto le poesie, rispondo che a me piace immaginare un ragazzetto con la testa rasata mentre disegna svastiche con la bomboletta. Senza dirlo ai suoi amici, in cuor suo, spera che qualcuno copra anche queste svastiche con nuove poesie di altri poeti. Le prime gli sono piaciute davvero tanto, come i sassi che, veloci, rimbalzano sull’acqua.