Non c’è trucco senza inganno

La moda femminile trecentesca rispecchia un ideale di bellezza artificiale e artificioso

 di Maria Giuseppina Muzzarelli
professoressa ordinaria, Dipartimento di Storia Culture Civiltà, Università di Bologna

 Alla nobilissima e molto onorevole donna Sança Ximenis d’Arenòs, contessa di Prades, il francescano osservante catalano Francesc Eiximenis (1330-1409), consigliere del sovrano, dedicò un’opera, Crestià,

dalla quale (in particolare dal Terç del Crestià e dal Llibre de le dones) si possono ricavare elementi relativi alla rappresentazione della bellezza femminile in pieno Trecento ed alla considerazione critica di essa da parte di un testimone attento, non privo di dosi di misoginia, alle pratiche e ai gusti della sua epoca.
Di qui in avanti le citazioni sono da Francesc Eiximenis, Estetica medievale dell’eros, della mensa e della città, a cura di G.Zanoletti , Milano, Jaca Book. A una sorta di ampio preambolo fa seguire una serie di considerazioni sui diversi stati delle donne, sull’educazione da impartire loro e sulla loro maniera di vivere, distinguendo in prima istanza quelle che intendono servire Dio e quelle che intendono prendere marito. Di queste ultime sa come amassero abbigliarsi con stravaganza e truccarsi accuratamente ed avanza considerazioni critiche nei confronti di quante, ad esempio, usano dipingersi per migliorare il loro viso che è stato fatto dalla saggezza di Dio. Errano per più ragioni ma soprattutto perché non confidano nel potenziale della loro bellezza naturale. Questo tema e questo genere di argomentazione è ricorrente nell’omiletica e corrisponde a una necessità evidentemente sentita di porre un freno a interventi attuati a fini di bellezza che alteravano viso e corpo.

 All’insegna dell’eccesso

L’epoca di Eiximenis è quella dello sviluppo della moda e relativo “indotto”, della produzione e offerta cioè di molti oggetti concepiti per attrarre gli sguardi, per suscitare ammirazione ed invidia e il francescano catalano ne è pienamente consapevole. Interviene con cognizione di causa in un terreno che godeva del favore di molti, non solo delle donne, che ricavavano non solo gusto ma anche vantaggio da abiti o accessori messi al servizio di una certa idea di bellezza: una bellezza “alla moda”, fatta di interventi ingegnosi per modificare il proprio aspetto, agendo tanto sulle proporzioni come sulle tinte. Gli artifici riguardavano sia il volto sia l’intera figura ed erano volti a modificare l’altezza ricorrendo ad elevatissimi sopralzi o ad alterare stazza applicando apposite imbottiture tanto che un altro predicatore, il Minore Osservante Bernardino da Feltre, condannerà questa pratica nel XV secolo, ritenendola una forma di alterazione del mercato giacchè l’uomo che credeva di avere scelto una moglie bella in carne si poteva ritrovare a casa, «tolte pezze e strazzi» tutt’altra realtà.
Eiximenis parla degli ornamenti che le donne portano in capo al di là di ogni regola e misura: corone simili a quelle reali, veli dorati con nastri speciali. Sappiamo bene da fonti non solo scritte ma anche iconografiche che l’ideale di bellezza del tempo esigeva capelli biondi (da tingere seguendo apposite ricette), fronti alte (da depilare per rendere tali), un incarnato candido ottenuto con biaccature e vistosi copricapi che rovesciavano in ricerca di visibilità l’obbligo originariamente imposto alle donne di coprirsi il capo per modestia. È lo stesso Eiximenis a prendere atto del paradosso (p. 62) di fronte a oggetti strabilianti che tutto indicavano fuorchè quella modestia che, secondo san Paolo, doveva caratterizzare, assieme alla subordianzione all’uomo, comportamenti e scelte estetiche delle donne.
Ma le donne che Eiximenis scruta con sguardo critico portano in testa ben altro che un semplice pannetto: esibiscono copricapi vistosi, ingombranti, preziosi per aggiungere fascino secondo un’idea di bellezza sostanzialmente fondata sull’artificio e sull’eccesso. Indossano vesti di materiali pregiatissimi mostrandosi «più adorne che gli altari nel giorno della Messa» , si drappeggiano sapientemente addosso i veli per provocare desiderio negli uomini e portano vesti talmente strette in vita «che fa meraviglia come tale angustia non le spezzi». Non paghe di ciò, si trascinano dietro dietro lunghi strascichi ed esibiscono in capo «capelli tolti a donne  morte che potrebbero procurar loro infezioni» (p. 62). Ancora: ostentano infiniti e stravaganti ornamenti al solo scopo di far risplendere la loro bellezza, calzano guanti sulle loro mani per mantenerle morbide, «portano scarpe con la punta tagliata e camminano con soltanto la pianta del piede calzata e usano sandali e scarpe strette ed aguzze».

 Se la donna è manichino

Quanto denuncia Eiximenis corrisponde a quello che ci è noto della moda del pieno Trecento che imponeva stravaganze e artifici, larghezze esagerate, lunghezze smisurate, sciupii vistosi e contrasti di colore ma anche interventi sul volto.
Il confronto/scontro è dunque fra natura e artificio, fra misura e smisuratezza, fra modestia e superbia. Le osservazioni del francescano catalano testimoniano quanto attestano anche fonti di diverso tipo, dalle leggi suntuarie alla novellistica. Non è inedita né sconosciuta tale divergenza nell’interpretare la bellezza. I passi dell’opera dell’Eiximenis offrono un’altra prova di quanto la società trecentesca avesse elaborato e diffuso in tutti i paesi, in Italia come in Spagna e in Francia: un modello di bellezza che esigeva una forte manipolazione dell’aspetto fisico e il ricorso ad eccessi: rappresentati da molti strati di abiti, molti colori, molti ornamenti, lunghezze e larghezze esagerate e così via. Tutto ciò per comunicare ricchezza, privilegio, accuratezza e in definitiva bellezza. Si trattava di una scelta condivisa dagli uomini come dalle donne che spesso, abbigliate come feticci, svolgevano la funzione di manichino di esposizione dello status elevato della famiglia. L’Eiximenis, pur così accuratamente informato, sembra sottovalutare questo aspetto della questione ed attribuire soprattutto alle donne il gusto, anzi il vizio della vanità e della superbia. Per contrastare tale deriva invita genitori e mariti a educare le donne alla moderazione con le buone ma, se non basta, anche «con la severità delle minacce ed alcuni schiaffetti e leggere percosse»: leggere ma non troppo deboli! (p. 72). 

Quel che resta

L’ideale di bellezza basato sull’artificio e sull’esorbitanza non era l’unico, ma certamente era attraente e destinato a durare. Resta il significato tutt’altro che trascurabile dell’azione svolta dall’Eiximenis, ma non solo da lui, nell’indurre alla riflessione e all’autoanalisi. Resta il valore di un’opera come il trattato del nostro francescano catalano che non solo ci testimonia la moda dell’epoca ma anche la critica ad essa e soprattutto attesta l’opera intrapresa per far crescere la  consapevolezza di quanto stava prendendo piede in fatto di consumo e di uso del corpo. Eiximenis parla di «follia delle donne» , di loro malizia e di necessità di educarle. Era la società nel suo insieme che andava educata perché da essa derivava e ad essa aderiva l’idea di bellezza come artificio e come eccesso e in definitiva come disprezzo del corpo e delle sue esigenze.

 

 

 

Dell’autrice segnaliamo:
A capo coperto. Storie di donne e di veli
il Mulino, Bologna 2016, pp. 214