In medias res

Immersi nella massa, aggrappati ai mezzi

di John Martin Kregel
dottore in Scienze della comunicazione pubblica e sociale

Image 065Video factum est

«Mai avuta? Ma proprio mai mai mai?» . Ormai abituato allo sbigottimento creato dalla mia confessione di non avere mai, ma proprio mai mai mai, avuto la televisione, rispondo al mio collega con un sorriso, a metà tra l’imbarazzo e la malcelata ostentazione di una scelta.

Una scelta non personale, ma dei miei genitori, che mi ha dato modo di allenare gli occhi ad altri schermi e specchi del nostro tempo. Di certo non mi ha isolato o reso impermeabile alle tendenze e agli stili di vita correnti. Diciamo che mi ha lasciato aperte più finestre, rispetto a quell’unica cornice nella quale tanti si riflettono e per la quale troppi si illudono di informarsi quotidianamente.

Prima lezione del primo anno di università. Il “massmediologo” Grandi in cattedra: «Con quale metafora possiamo descrivere quelli che chiamiamo mezzi di comunicazione di massa?».

Tra gli studenti balenano immagini e significati. «Una finestra sul mondo!» L’osservatorio privilegiato sugli accadimenti di un popolo. «Un palcoscenico!» Da vicino e da lontano entrano nel nostro salotto tutti gli attori protagonisti della storia contemporanea. «Uno specchio!» Sì. Delle mie brame. «Oppure un filtro!» Dalla trama fitta, che si infittisce di giorno in giorno. «Un muro!» Di gomma, sul quale rimbalzano le opinioni fino a essere assorbite nel rumore di fondo sordo dell’etere.

«Tutto questo e ancor di più, ma - conclude il professore - sono prima di tutto mediatori sociali: utilizziamo dunque la metafora della guida, dell’interprete del mondo per l’individuo».

La complessità del mondo contemporaneo, specialmente alla velocità di oggi, è certamente necessario che venga mediata, ridotta, masticata un po’ per essere comprensibile e assimilabile da tutti. Non è ugualmente certo che tutti abbiano bisogno di questa mediazione, né tanto meno che sia condiviso da tutti il desiderio di essere raggiunti dal mondo ogni giorno a ogni ora.

Radio, tv, stampa, internet, social network, ma anche telefono, incontri, dibattiti, lettere e libri. Ognuno col suo mondo a portata di mano, di orecchio, di occhio. E se una buona guida sa indicare solo quegli elementi rilevanti e necessari all’orientamento, per soddisfare il viaggiatore smarrito e curioso, molti di questi mezzi di comunicazione, invece, si riempiono spesso di dettagli inutili, informazioni di contorno o puramente autoreferenziali. Perdendo il ruolo di interprete affidabile, capace di semplificare la vita al prossimo, rischiano di perdere al contempo il loro potere persuasivo, funzione centrale nella comunicazione pubblicitaria e politica. Ed è così che, pur di far capire persino un bambino, la semplificazione dei contenuti veicolati ha portato ad una riduzione del mondo a due dimensioni: una tattile, fatta di immagini e di sensazioni istantanee, e una emotiva, di patimenti a distanza e di gioie fugaci.

La costruzione sociale della realtà e l’attribuzione collettiva di senso, purtroppo, passano attraverso questa riduzione mediata.

Image 074Emozionarsi sì, ma da soli

L’era digitale si è aperta con una fortissima espressione di ricerca di libertà e di condivisione dei saperi, tuttavia non si è ancora liberata dai lasciti della precedente epoca di mercificazione e di massificazione della produzione culturale e dell’informazione.

La società dello spettacolo di debordiana memoria va ancora in scena ogni sera, nonostante le repliche siano ormai conosciute a memoria, su nuovi palcoscenici e con nuovi attori. L’immagine ha vinto sulla narrazione, l’apparenza sull’essenza, l’estetica sull’etica. L’appagamento del veni, vidi et vici informativo, in televisione prima e su wikipedia e youtube poi, ci suggerisce la percezione di essere noi i padroni di quanto accade, nonostante la passività e l’asimmetria del rapporto mediato ci costringa sempre a semplificare, non solo il mondo, ma pure noi stessi.

Le vittime delle violenze, come pure i loro carnefici, ci fanno compagnia, gli esperti ci rassicurano e gli “artisti” ci stupiscono. Lo spettacolo del dolore, come lo chiama Boltanski, ci lascia impotenti e incapaci di agire davanti alla sofferenza, al disagio, all’ingiustizia ripresentata ai nostri occhi in tempo reale nonostante la distanza che ci separa fisicamente. Se non agiamo - trasmettendo ad altri l’esperienza vissuta, mandando un aiuto economico o cercando di avvicinare veramente quelle realtà così lontane - ecco già un altro programma che inizia, un altro link da inseguire, un’altra causa da sostenere e diffondere. E intanto la nostra incapacità diventa indifferenza. Per altri ancora, diventa attaccamento a quello spettacolo morboso che ci svilisce ma che diventa esso stesso esperienza, o meglio esperimento, della nostra umanità violata perché disgiunta, separata dai suoi simili.

Ci emozioniamo, sì, ma da soli. Non c’è compassione perché non c’è compresenza. Non c’è carità, perché non ci può essere, senza coinvolgimento.

La verità non mediata

Eppure non siamo più quella società di massa incapace di far sentire la propria voce a chi ci presenta la realtà in un tg o su un sito d’informazione. Siamo un pubblico attivo, siamo dei pubblici. Siamo cerchie sempre più ampie di fans, di followers, di identità somiglianti. I mezzi di conversazione di massa ci permettono di reagire, facendo della partecipazione, della trasparenza e del consenso reale le fondamenta su cui non più essere informati, ma informarsi e informarci a vicenda.

Ma nemmeno possiamo sfuggire alla tanto antiquata quanto inevitabile visione di McLuhan, secondo la quale «il medium è il messaggio». Non conta il contenuto ma la forma della comunicazione, la cornice mentale nella quale siamo costretti dal medium tecnologico a ragionare e mettere in atto il nostro comunicare.

Quanto più i media sono davvero protesi del nostro corpo e strumenti delle nostre attività, tanto più la libertà di conoscere e di condividere rischia invece di tramutarsi nella condanna a perdersi nell’eccesso informativo e a restare soli, sebbene in rete con molti altri come noi, con i propri schermi e schemi mentali.

Ciononostante, sebbene siano difficili da trovare, nella moltiplicazione frammentata dei contenuti multimediali prodotti da chiunque, o immersi nel flusso di informazioni ridotte alla loro pura natura segnica espressa nella brevità di un cinguettio, stretti tra le amicizie e le alleanze orientate a obiettivi concreti, nella offerta di saperi liberi e nello sforzo di dare voce a chi non l’ha, esistono semi che trovano terreno fertile dove crescere, semplici e non semplificati, parole che trasmettono la bellezza autentica, senza mediazioni.

D’altronde, la verità non ha bisogno di essere tradotta, né mediata.