Il documento sulla fratellanza umana firmato da Papa Francesco e dall’imam Ahmad Al-Tayyip lo scorso febbraio è un testo di portata epocale, ragionato con sincerità e serietà, che merita di essere conosciuto e approfondito. La sua forza non è nell’essere un trattato di teologia o di morale cattolica o musulmana, ma nell’essere una dichiarazione di intenti, che chiama in causa i credenti.

a cura di Barbara Bonfiglioli

 In punta di piedi

Una nuova stagione di dialogo 

di Brunetto Salvarani
teologo laico, giornalista, scrittore e conduttore radiofonico, esperto di ecumenismo e dialogo interreligioso

 Al principio l’incontro

Dopo anni di sostanziale impronunciabilità, la parola dialogo sta riprendendo a comparire con frequenza nel linguaggio ecclesiale.

Messo in sott’ordine il mantra sui rischi del relativismo, papa Francesco sta fornendo un contributo essenziale a tale svolta, con una serie di gesti e di discorsi che fanno presagire l’avvio di una nuova stagione. Si veda, ad esempio, il suo discorso in occasione dei cinquant’anni del Pontificio Istituto di Studi Arabi e Islamici (PISAI), la struttura accademica che nei decenni ha formato centinaia di presbiteri, laici e missionari preparati al confronto con il mondo islamico, il 24 gennaio 2015. Esso «esige pazienza e umiltà – disse - che accompagnano uno studio approfondito, poiché l'approssimazione e l'improvvisazione possono essere controproducenti o, addirittura, causa di disagio e imbarazzo». Fino a ricorrere a un’immagine eloquente: «Al principio del dialogo c'è l’incontro e ci si avvicina all'altro in punta di piedi senza alzare la polvere che annebbia la vista».
Quattro anni più tardi, il 4 e il 5 febbraio scorsi, quelle riflessioni sulle modalità del dialogare hanno trovato una traduzione concreta nel palcoscenico fiabesco degli Emirati Arabi Uniti, ad Abu Dhabi. Dove Francesco e il grande imam di al-Azhar - principale centro culturale sunnita al mondo, sito al Cairo - hanno firmato insieme un documento sulla Fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune, assai denso, carico di speranza e di potenzialità benefiche. Il coraggioso pellegrinaggio papale, una prima volta per lui e per la storia del pontificato nella penisola arabica, ha avuto due momenti cruciali: lunedì, quando Bergoglio e Ahmad Al-Tayyip (filosofo e teologo, formatosi alla Sorbona e all’università di Friburgo in Svizzera) hanno sottoscritto quel testo, e poi l’eucaristia, insperata e toccante, sotto un’enorme croce che pure è vietata all’esterno in quel Paese, martedì. 

Spiazzare gli scontristi

Ma che significato ha quel documento? Ha ragione Francesco, quando, durante il viaggio di ritorno, ha risposto alle domande dei giornalisti, rivelando quella che ne va considerata l’ermeneutica profonda: l’incontro, storico, si è posto sull’onda lunga del Concilio, a mezzo secolo dalla sua celebrazione. Ed è per questo che, comprensibilmente, quanti si pongono, nella Chiesa, più o meno dichiaratamente all’opposizione del Vaticano II, hanno subito gridato allo scandalo e al tradimento. Chi ha introiettato, almeno a partire dall’11 settembre 2001, lo schema mentale dello scontro di civiltà, non può che trovarsi spiazzato, a fronte delle immagini, degli abbracci e delle parole di Abu Dhabi, che quello schema hanno definitivamente reso obsoleto. Fino a superare persino la stessa metodologia del dialogo, per adottare quella, ben più impegnativa, della fraternità, termine strategico nell’esperienza dello stesso Francesco d’Assisi che per primo decise di appellare i compagni fratres («Il punto di partenza – ha detto il papa al Founder’s Memorial - è riconoscere che Dio è all’origine dell’unica famiglia umana. Egli, che è il Creatore di tutto e di tutti, vuole che viviamo da fratelli e sorelle, abitando la casa comune del creato che Egli ci ha donato. Si fonda qui, alle radici della nostra comune umanità, la fratellanza, quale vocazione contenuta nel disegno creatore di Dio»).
Mentre il documento recita che «la fede porta il credente a vedere nell’altro un fratello da sostenere e da amare», e che è la stessa volontà di Dio (qui si riecheggia una celebre sura del Corano, V,48) a volere il pluralismo e ogni diversità, di religione, genere, lingua. In una prospettiva che pare superare addirittura il paradigma inclusivista, nel rapporto fra cristianesimo e religioni, e apre le porte a quello pluralista. Poi, la condanna ferma e ripetuta del fondamentalismo e del terrorismo, oltre che di ogni violenza e persecuzione provocate dalla strumentalizzazione delle religioni, è letta qui non solo come una risposta all’emergenza odierna, ma come la tessera decisiva di un mosaico in cui viene sottolineata la funzione positiva e propositiva delle religioni stesse nell’attuale stagione storica.
Come ha colto il liturgista Andrea Grillo, il cuore del testo non è la questione astratta del rapporto tra fede e ragione, ma la concreta vocazione alla pace delle diverse religioni. Perciò tutto il discorso utilizza riferimenti biblici di sfondo e lavora con concetti politici che trovano nelle diverse tradizioni religiose il loro contesto di giustificazione e promozione. Così, alla vocazione alla pace i diversi popoli sono chiamati a rispondere con una radicale confessione di fratellanza, con il riconoscimento della eguale dignità di tutti gli uomini, senza che vi siano padroni o schiavi; riconosce che la propria identità deve avere il coraggio dell’alterità, per lasciarsi arricchire dall’incontro con il diverso, di cui si deve onorare la originaria libertà.

 Fratellanza come meta

Un’esperienza, quella della potenziale fratellanza, beninteso, oggi non priva di contraddizioni; ma anche, se reale e non immaginaria, capace di farsene carico. Perché essere fratelli e sorelle non è solo un dato biologico o anagrafico (se lo è), ma una meta da conquistare, giorno dopo giorno, spesso a fatica e a prezzo di molte sofferenze. Come mostrano tante storie bibliche (una su tutte, la saga di Giacobbe ed Esaù); ma anche la vicenda, problematica ma altresì ricca di esempi positivi e poco studiati, delle relazioni fra cristiani e musulmani. Rispetto alla quale siamo invitati a educarci a divenire fratelli e sorelle, se prendiamo sul serio l’invito dei padri conciliari: «La Chiesa guarda con stima i musulmani» (Nostra aetate 3).
Non è detto che la cosa funzioni, soprattutto in tempi brevi: nella narrazione biblica, ad esempio, Giacobbe ed Esaù riusciranno nell’impresa di riconciliarsi dopo numerose reciproche ferite, pur pagando prezzi immani; mentre Lia e Rachele, mogli del patriarca, non ce la faranno, e la loro parentela rimarrà sulla carta, senza tradursi in vita vissuta. In questo senso, Abu Dhabi, c’è da augurarselo, è stato un primo passo per annusarsi, per rendersi conto che l’altro – piaccia a no – è parte di noi, e per imparare a camminare insieme. La misura di quanto è accaduto realmente in quei giorni ce la fornirà solo il futuro, e risulterà o meno dalle tante situazioni di confronto e incontro quotidiano tra fedeli cristiani e musulmani.

Dell’Autore segnaliamo:
Teologia per tempi incerti
Laterza, Bari 2018