Viviamo in una società e in un tempo caratterizzati dal digitale, il Digital Age, un periodo complesso a causa dei profondi cambiamenti che queste tecnologie stanno producendo. L’effetto della esponenziale digitalizzazione della comunicazione e della società sta portando, a detta di studiosi come Marc Prensky, a una vera e propria trasformazione antropologica: l’avvento dei nativi digitali.

a cura di Valentino Romagnoli

 Nel nome del padre del figlio e dell’algoritmo

Giovani nel Digital Age 

di Paolo Benanti
Ministro provinciale del Terz’Ordine Regolare, docente di teologia morale all’Università Gregoriana

 Una premessa: il Digital Age

Nativo digitale (in inglese digital native) è una espressione che viene applicata ad una persona che è cresciuta con le tecnologie digitali come i computer, internet, telefoni cellulari e MP3.

L’espressione viene utilizzata per indicare un nuovo e inedito gruppo di studenti che sta accedendo al sistema dell’educazione. I nativi digitali nascono parallelamente alla diffusione di massa dei computer a interfaccia grafica nel 1985 e dei sistemi operativi a finestre nel 1996. Il nativo digitale cresce in una società multischermo, e considera le tecnologie come un elemento naturale non provando nessun disagio nel manipolarle e interagire con esse.
Per contro, Prensky, conia l’espressione immigrato digitale (digital immigrant) per indicare una persona che è cresciuta prima delle tecnologie digitali e le ha adottate in un secondo tempo. Una delle differenziazioni tra questi soggetti è il diverso approccio mentale che hanno verso le nuove tecnologie: ad esempio un nativo digitale parlerà della sua nuova macchina fotografica (senza definirne la tipologia tecnologica) mentre un immigrato digitale parlerà della sua nuova macchina fotografica digitale, in contrapposizione alla macchina fotografica con pellicola chimica utilizzata in precedenza. Un nativo digitale, per Prensky, è come plasmato dalla dieta mediale a cui è sottoposto: in cinque anni, ad esempio, trascorre 10.000 ore con i videogames, scambia almeno 200.000 email, trascorre 10.000 ore al cellulare, passa 20.000 ore davanti alla televisione guardando almeno 500.000 spot pubblicitari dedicando, però, solo 5.000 ore alla lettura. 

Dieta mediale

Questa dieta mediale produce, secondo Prensky, un nuovo linguaggio, un nuovo modo di organizzare il pensiero che modificherà la struttura cerebrale dei nativi digitali. Multitasking, ipertestualità e interattività sono, per Prensky, solo alcune caratteristiche di quello che appare come un nuovo e inedito modo di comprendere e comunicare dell’essere umano. Inoltre Prensky sostiene che, sia pure in modo irregolare e alla nostra personale velocità, ci muoviamo tutti verso un potenziamento digitale che include le attività cognitive. Secondo Prensky gli strumenti digitali già estendono e arricchiscono le nostre capacità cognitive in molti modi. La tecnologia digitale migliora la memoria, per esempio attraverso gli strumenti di acquisizione, archiviazione e restituzione dei dati. La raccolta digitale di dati e gli strumenti di supporto alle decisioni migliorano la capacità di scelta consentendoci di raccogliere più dati e verificare tutte le implicazioni derivanti da quella domanda. Il potenziamento digitale in ambito cognitivo, reso possibile da laptop, database online, simulazioni tridimensionali virtuali, strumenti collaborativi online, tablet e da una serie di altri strumenti specifici per diversi contesti, è oggi per Prensky una realtà in molte professioni, anche in campi non tecnici come la giurisprudenza e le discipline umanistiche.

 Digital Age come fenomeno religioso

Nella storia del pensiero, di fatto si è assistito al ricorso a diverse forme di autorità per sintetizzare dei criteri che fondassero e orientassero le scelte delle persone. Per migliaia di anni gli esseri umani hanno indicato l’autorità come venuta e consegnata agli uomini dagli dei. Poi, durante l’epoca moderna, l’umanesimo ha gradualmente spostato l’autorità dalle divinità alla persona. Quando Rousseau nell’Emile parla della ricerca di regole di condotta nella vita dice di averle trovate «nel profondo del mio cuore, tracciate dalla natura in caratteri che nulla può cancellare. Ho bisogno solo di consultare me stesso per quanto riguarda ciò che desidero fare; quello che sento essere buono è buono, quello che sento essere cattivo è cattivo». Per gli umanisti, non gli dei ma i nostri sentimenti e desideri sono la fonte ultima di significato: la nostra volontà è, dunque, la più alta fonte di autorità.
Ora, in questa epoca di insorgenza di intelligenze artificiali, una nuova rivoluzione nel principio di autorità e nella comprensione di quali siano le fonti autorevoli sta per avvenire. Se nell’antica Grecia le fonti autorevoli erano gli oracoli, legittimati da mitologie e credenze, a partire dall’umanesimo l’autorità umana è stata legittimata da ideologie umanistiche. Sembrerebbe che i nuovi guru dell’high-tech e i profeti della Silicon Valley stiano creando una nuova narrazione universale che legittima una nuova fonte di autorità: gli algoritmi di intelligenza artificiale e i Big Data.
Questo nuovo romanzo, questa nuova fondazione religiosa, questa sorta di mitologia del XXI secolo potremmo chiamarla digitalesimo. Nella sua forma estrema i fautori di questa visione del mondo digitalista percepiscono l’intero universo come un flusso di dati, vedono gli organismi viventi come poco più di algoritmi biochimici e credono che esista una vocazione cosmica per l’umanità: creare un sistema di elaborazione dati onnicomprensivo e poi, nell’eschaton del cosmo, fondersi in esso.

 La globalizzazione dell’algoritmo

Dal punto di vista dell’annuncio della fede ci troviamo di fronte a una inedita e sfidante modalità che cambia le coordinate di riferimento nel processo della fiducia e dell’attribuzione di autorevolezza. Il modo con cui chiediamo a un motore di ricerca, agli algoritmi di un’intelligenza artificiale o a un computer alcune risposte su questioni che riguardano i nostri processi più intimi, si pensi ai software per trovare il partner o l’anima gemella, ha una matrice che potremmo definire di natura religiosa: ci relazioniamo alla macchina e alla sua risposta con un atteggiamento che non è molto differente da quello che avevano quanti, nell’antichità, si rivolgevano ad oracoli e aruspici per conoscere il loro destino. Il digitalesimo, questo nuovo modo di relazionarsi e credere al digitale, assume in alcuni i tratti di un vero e proprio fenomeno religioso e come tale va considerato nel pensare un annuncio di fede.
Il digitalesimo, con queste sue componenti tecniche e religiose, unito alla grandissima pervasività dei mezzi di cui dispone, potrebbe dar luogo a una cultura globale che formerà soprattutto il modo di pensare e credere delle prossime generazioni di giovani. Le quali saranno sempre più globalmente digitali e sempre di più presenteranno caratteristiche e modi di pensiero globali. Le grandi piattaforme di condivisione video, i social networks e i sistemi di chat globale sembrano annunciare l’avvento di una generazione di giovani globale grazie al loro potere di diffusione e di istantaneità.
Questo, oltre che una sfida, può essere un’opportunità. Sviluppare forme e strumenti in grado di decodificare le istanze antropologiche che si pongono alla base di questi fenomeni e affinare modi di evangelizzazione per la cultura digitale consente non solo di comprendere il presente ma di offrire azioni evangelizzatrici globali e diffuse come globale e diffuso è il Digital Age.