Imparare a riconoscerci negli altri

La comunicazione trasforma la vita in un laboratorio permanente dell’umano

di Pietro A. Cavaleri
psicologo

Image 056Il silenzio assordante

Due persone, che non si conoscono, entrano nello scompartimento vuoto di un treno. Dopo un formale e distratto cenno di saluto, ognuna si siede nella parte diametralmente opposta all’altra. Il passeggero accanto al finestrino fissa il paesaggio che scorre davanti ai suoi occhi, l’altro si trincera dietro la lettura di un libro. Entrambi “espongono” il loro corpo l’uno alla vista dell’altro, condividono lo stesso spazio e il medesimo tempo, ma si ignorano e non interagiscono. Essi in realtà, per il tramite di diversi canali “non verbali”, si stanno scambiando una serie significativa di messaggi: “non disturbarmi”, “non invadere la mia sfera privata”, “non mi interessa conoscerti”.

Se osserviamo bene ciò che sta accadendo fra i due, dobbiamo ammettere che per gli esseri umani, e non solo per loro, “è impossibile non comunicare”. Il fatto stesso di avere un corpo, come ha ben intuito Merleau-Ponty, ci “espone” allo sguardo dell’altro, ci “costringe” alla relazione con lui, svelandogli in modo non verbale le nostre intenzioni e le nostre emozioni. Mostrare il proprio corpo e percepire il corpo dell’altro, condividere con lui un medesimo spazio, attiva già di per sé una relazione significativa, un intenso flusso di interazioni comunicative. Ci relazioniamo e comunichiamo anche in assenza di parole, anche nel silenzio più assoluto che, proprio a motivo della sua complessa densità, può divenire “assordante” e insopportabile. Per gli esseri umani relazionarsi e comunicare costituiscono due esperienze inscindibili, due dimensioni che di continuo si sovrappongono e si intrecciano, alimentandosi e generandosi a vicenda.

Contaminazioni e paure

Ma, entrando più nel concreto, cosa intendiamo per “relazione comunicativa”? Che significato ha nella nostra vita “la comunicazione”? Nell’era del consumismo più invadente e persuasivo, comunicare può significare “informare”. Nell’orizzonte culturale di un ceto politico arrogante e antidemocratico, comunicare può voler dire semplicemente “manipolare”, rappresentare in malafede una realtà che non esiste. Per ciascuno di noi, nel quotidiano, la comunicazione può costituire un canale attraverso cui dare dei messaggi che riteniamo di una certa rilevanza, oppure uno strumento per mezzo del quale “orientare” in modo subdolo gli altri verso una determinata percezione della realtà che a noi fa comodo. Non è un caso, a questo proposito, che gli esperti della Scuola di Palo Alto abbiano individuato nella interazione comunicativa uno degli ambiti più complessi della vita umana, da cui dipende in modo diretto la nostra stessa identità e la nostra salute mentale.

Per lungo tempo abbiamo creduto che l’uomo fosse “lupo per l’altro uomo”, che relazionarci con l’altro, comunicare con lui ci avrebbe inevitabilmente esposto solo al rischio di essere depredati, manipolati, negati. È per questo motivo, forse, che abbiamo imparato a non comunicare più, a non farci “contaminare” dall’altro, a rendere asettiche ed esigue le nostre relazioni sociali, a barricarci nei nostri inespugnabili appartamenti, a chiuderci nel nostro “privato” come in un bozzolo fitto ed impenetrabile. La cultura moderna ci ha convinti di poter essere autosufficienti, di poter fare a meno della relazione con l’altro per vivere meglio.

Da alcuni anni Axel Honneth, autorevole esponente della Scuola di Francoforte, sostiene una tesi molto originale. Egli afferma che la relazione umana non va concepita come uno spazio di “lotta per la sopravvivenza”, dove ciascuno inevitabilmente si trasforma in predatore del suo simile, quanto piuttosto come uno spazio di “lotta per il riconoscimento”. Le lotte, i conflitti, le tensioni, che da sempre pervadono le relazioni umane, non scaturiscono unicamente da una volontà predatoria, da un cieco istinto di sopravvivenza, ma da una inappagata istanza di “riconoscimento” della propria identità, della propria dignità, della propria presenza. Nella lotta che viene agita in una relazione umana, l’oggetto della contesa non è tanto la “cosa” che si vuole sottrarre all’altro per poter sopravvivere meglio. Il vero oggetto della contesa è invece il “riconoscimento” che, attraverso la “cosa”, otteniamo dall’altro. Nelle nostre relazioni quotidiane, non lottiamo per impossessarci di un qualche bene materiale, ma per indurre l’altro a prendere atto della nostra “presenza”, della nostra peculiare differenza. È per questo che lottiamo in famiglia, quando reclamiamo il calore degli affetti, o nella comunità sociale, quando ci appelliamo a vincoli più solidali, o nei rapporti con lo Stato, quando difendiamo dei diritti che ci appaiono violati.

Image 063Il criterio dell’umano

Se esiste un criterio per stabilire quanto sia “umana” una relazione, esso forse va individuato nella categoria del “riconoscimento”. I più autorevoli psicologi dello sviluppo e le più attuali ricerche in ambito neuroscientifico confermano come l’essere “riconosciuti” costituisca l’elemento qualitativo fondamentale per discriminare le relazioni umane mentalmente sane da quelle disturbate. La comunicazione, allora, diventa efficace non quando badiamo ai contenuti, o agli “effetti speciali” utilizzati per attirare l’attenzione, ma quando diamo priorità alla “qualità” della relazione, cioè al “riconoscimento” del nostro interlocutore. La capacità di “guardare” l’altro, di ascoltarlo, di metterci nei suoi panni, non solo ci permette di riconoscerlo nella sua unicità e di comunicare meglio con lui, ma ci consente di “riconoscerci”, cioè di prendere possesso di noi stessi.

Neuroscienziati e psicologi dello sviluppo sono concordi nel sostenere che apprendiamo a definire la nostra identità nella misura in cui sappiamo focalizzare quella dell’altro. Impariamo a riconoscere le nostre emozioni sapendo cogliere quelle altrui, impariamo ad ascoltare noi stessi ascoltando gli altri. La nostra identità e la nostra salute mentale costituiscono un complesso processo relazionale che ogni giorno co-costruiamo con gli altri e del quale gli altri sono, al pari nostro, co-protagonisti. La relazione comunicativa si delinea come una sorta di laboratorio permanente, nel quale in modo incessante si “produce” un bene tanto prezioso quanto precario: l’umano. In questo momento incombono sulla nostra specie radicali cambiamenti, dei quali è difficile intravedere gli esiti finali. Solo riuscendo a “produrre l’umano”, saremo capaci di trovare per noi e per le generazioni future le soluzioni adattive più evolute e creative.