Galeotto fu ’l papa

 di Pietro Casadio
della Redazione di MC

 I geografi le chiamano enclavi. Sapete cos’è un’enclave? È un territorio completamente circondato da uno stato con altra sovranità. Come San Marino in Italia, per intenderci. Di qua, di là, di giù, di su, tutto sembra uguale, omogeneo, uniforme; ma, appena si varca il confine dell’enclave, tutto cambia, all’improvviso: valgono altre leggi, dominano altre istituzioni. Ecco, sono un po’ come le enclavi, le carceri italiane. E non solo per una questione etimologica (enclave significa “chiuso a chiave”), ma per la loro stessa natura: sono piccoli mondi inseriti in un territorio “normale”, ma varcata quella soglia, la soglia della Casa Circondariale, tutto cambia: le regole, lo stile di vita, il modo di pensare, persino il linguaggio.
Riavvolgiamo il nastro e riordiniamo le idee: il 27 marzo 2013, nella sua prima udienza generale, papa Francesco invitava tutti i cristiani a uscire da se stessi per andare verso le periferie dell’esistenza. E così, anche noi di Messaggero Cappuccino, nel nostro piccolo, abbiamo iniziato a chiederci come tradurre questo invito nella linea editoriale della rivista. La domanda ha portato, come sapete, alla nascita di una preziosa collaborazione con la Caritas di Bologna e con “Ne vale la pena”, il settimanale di informazione dal carcere della Dozza: queste realtà ci offrono, per ogni numero, due articoli preziosissimi che danno voce a due categorie periferiche: poveri e detenuti.
Primavera dell’anno passato, una fulgida intuizione di Lucia, la veterana di MC: perché non incontrare de visu la redazione di “Ne vale la pena”? Senza tanti programmi, senza interviste da fare: visitare la Casa Circondariale per conoscere di persona i nostri collaboratori, per guardarli negli occhi. Giusto il tempo (lunghissimo) di smuovere il grasso elefante della burocrazia, ed eccoci, il 4 dicembre 2018, nei corridoi del carcere bolognese, con pesanti porte blindate che si chiudono alle nostre spalle. Siamo condotti nella sezione educativa del carcere, dove ogni martedì, dal marzo 2012, si radunano una quindicina di detenuti e alcuni volontari, e fanno una vera e propria redazione, con tanto di rassegna stampa. Ci presentiamo, ci spieghiamo vicendevolmente come lavoriamo, facciamo domande pertinenti e impertinenti e dopo due orette ci salutiamo stringendoci la mano. All’uscita, tornati a riveder le stelle, avevo nel cuore alcune riflessioni, certamente banali per chi conosce la realtà carceraria, ma nuove per me che avevo appena scoperto l’esistenza, a pochi chilometri da casa, di un piccolo mondo a sé stante, un’enclave insomma.
La prima impressione è stata proprio questa: tutto ciò che è fuori, pur distante pochi metri, è lontanissimo. Lo spazio del carcere è, per i detenuti, il piccolo spazio in cui si gioca la vita quotidiana, ancora più ridotto per via dei limitati rapporti con l’esterno, con chi abita il mondo al di là dei confini dell’enclave. Alla compressione dello spazio corrisponde poi una dilatazione del tempo: è il terribile dominio del presente per chi vive in una cella. Nelle ore passate insieme, non sono emersi, neanche per sbaglio, discorsi sulla loro vita prima del carcere. E neppure sono emersi desideri o paure su ciò che sarà dopo, se non un fugace accenno, di Gianluca, alla speranza di scontare gli ultimi tre mesi ai domiciliari. Certo, non era quello il momento in cui affrontare il peso del passato o aprire l’incerta porta del futuro, ma l’impressione è questa: il carcere schiaccia le persone sul loro presente, lo dilata, lo rallenta, ingigantendo la durata della giornata e allontanando, quasi sfocando, il prima e il dopo.
Il secondo pensiero è stato invece positivo. I redattori di “Ne vale la pena” approfondiscono le tematiche che riguardano la realtà carceraria. Raccolgono, leggono ed eventualmente diffondono articoli di giornale che parlano di essa. Discutono su come dar conto, negli articoli scritti, della propria condizione. Insomma, l’attività di redazione non è un’evasione: lì non si va per “scappare” dalla quotidianità, ma per imparare a viverla con più consapevolezza, per rendere il carcere un luogo un pochino più vivibile. Prigionieri del tempo e dello spazio, cercano di ricostruirsi un’identità, difendere i loro diritti, intessere una rete di relazioni, ostacolati da un’istituzione che lì più che altrove appare vecchia, lenta, quasi immutabile.
Mi concedo una terza e ultima riflessione, la più sciocca e la più importante. Chi lavora con i detenuti, chi è abituato a relazionarsi con loro, non può certo tenere in disparte il loro passato e il reato per cui sono stati condannati. Ma io, che li conoscevo per due ore, mi potevo permettere di incontrarli tabula rasa, nel qui e ora che sono costretti a vivere. E la sorpresa più grande, perdonate la superficialità, è stata trovare persone come me. Non ho conosciuto dei detenuti. Ho conosciuto Pasquale, Filippo, Giuseppe e così via. Ed è stato un po’ come scoprire che San Marino è abitato da persone.
Gli articoli degli ospiti della Dozza sono consultabili nel sito www.bandieragialla.it