Maura e Cristina sono una di fronte all’altra, scomodamente sedute su bassi panchetti di fortuna. Si guardano in silenzio, in attesa. Entrambe portano sul capo un foulard che scende morbido sotto il mento e sulle spalle, a coprire in parte i loro volti. Dietro, sul muro grigio, campeggia un grande foglio di carta da pacchi sul quale è stato riprodotto coi pastelli scuri il disegno di un pozzo.
a cura della Caritas Diocesana di Bologna
No woman no cry!
Nei panni degli altri contro la violenza
IL TÈ DELLE BUONE NOTIZIE
Un pozzo, due donne
«Ma che c’è oggi? Teatro?», chiede qualcuno ridendo.
Intanto entrano i ritardatari e bisogna stringersi per starci tutti. Quando il livello di curiosità e di silenzio arriva al punto giusto, Maura dà il via: «Cristina, sei pronta? Partiamo?». «Sì, cominciamo!». Cristina chiude gli occhi, prende fiato come se stesse per tuffarsi da una scogliera a picco sul mare e quando li riapre, per un miracolo di fantasia, si è trasformata nell’umile personaggio biblico di Susanna: «Perdonami, mia signora», dice con dolcezza interpellando Maura, «oso rivolgerti la parola: chi sei? Il tuo portamento elegante, le tue ricche vesti, il tuo diadema… sei forse una regina? Non ti ho mai visto prima d’ora da queste parti! Come mai sei scesa qui da sola, fino a questo pozzo nel deserto, senza la servitù al tuo fianco? Una donna del tuo rango non ha bisogno di venire fin qui per l’acqua! Ti sei persa? Hai bisogno di aiuto?». Maura alza lo sguardo e le sorride: «No, cara Susanna. Non mi sono persa. Ma hai ragione: sono davvero una regina! Sono Betsabea! Fui moglie del re Davide e prima ancora di Uria il guerriero, che Davide fece uccidere dopo avermi voluta e messa incinta. Sono venuta fin qui dal passato per incontrarti. Sono venuta fin qui ad ascoltare la tua storia di donna, Susanna, e a raccontarti la mia…».
Il tè di oggi comincia così, vicino ad un pozzo in mezzo al deserto, con l’immaginario incontro di due donne della Bibbia vissute in epoche diverse, ma accomunate dallo strazio di essere state prede della bramosia di possesso dell’uomo. Mentre le due donne si scambiano le confidenze sulle loro vite violate, mi guardo intorno. Osservo con attenzione la nostra gente: è incantata dal racconto della Parola che Maura e Cristina stanno facendo rivivere. Tutti stanno partecipando allo scambio come fanno i bambini: ci sono entrati dentro. Quando Susanna confida a Betsabea il suo rifiuto di concedersi a due giudici corrotti e la conseguente falsa accusa di adulterio, mossale per vendetta, Maria Rosaria si infiamma e le esce un «vecchi bastardi schifosi!» di femminile supporto. Quando poi Susanna racconta gioiosa di come il Signore l’abbia salvata, ispirando il profeta Daniele, poco più che bambino, a smascherare i perfidi giudici, Maria Rosaria esplode di nuovo, questa volta in un grido vittorioso: «Sì! È proprio così che è successo anche a me! Il Signore può davvero tutto!». La rappresentazione si è conclusa lasciando spazio ad un applauso generale.
La violenza è indifferente
«Capisco cosa dice questa storia!», parte Maria Rosaria. «Quando avevo dodici anni, un vecchio al mio paese mi chiamava da una parte, mi faceva vedere dei giornaletti porno e si masturbava. Mi dava 500 lire perché stessi lì mentre si faceva i fatti suoi e a me pareva una cosa normale: mi facevano comodo quei soldi, noi eravamo poveri, a me non ne davano mai. Poi venni a sapere che non faceva così solo con me. Alla fine mia madre lo scoprì e fu denunciato. Ho capito solo dopo che anche quella era violenza perché lui approfittava della mia innocenza…».
«Be’ però esiste anche la violenza sugli uomini», si inserisce Tomislaw, «mia moglie non mi picchiava, ma con me aveva un atteggiamento molto violento. Mi minacciava sempre, era gelosa in modo non normale, non mi dava libertà. Facevo una vita impossibile con lei… Ecco io ho subito questo tipo di violenza. Fa male anche questa!».
«Il fatto è che oggi non c’è più rispetto per le persone!», dice Ibrahim, «il 99% del rispetto oggi è per il denaro. È il denaro, alla fine, il motivo di ogni violenza…».
«Forse bisogna anche capire che cosa significhi “violenza”», spiega Azadè, «a Bologna c’era un delinquente che violentava le donne straniere. Lui sapeva che sono più fragili, più esposte perché si sentono in colpa, si vergognano, sono meno consapevoli dei propri diritti e non parlano. Anche la cultura allora può essere “violenta” e questa violenza si può vincere con l’educazione alla libertà»
Attraversare
«Ecco, io non sono un tipo violento» dice Maurizio con dolcezza. «La violenza cerco sempre di evitarla, ma ci sono delle volte che…», Maurizio si ferma, cerca le parole giuste, si capisce bene che vuol consegnarci qualcosa di doloroso e profondo, «insomma - come faccio a spiegarmi? - io mi accorgo che non mi accorgo più del male. Ce n’è tanto in giro, alla fine lo do per scontato… Ma diventare indifferenti rispetto al male, è violenza pure quella, no? Voglio combattere dentro di me l’assuefazione al male, perché anche questa indifferenza è in realtà la più grande violenza…».
«Al mio paese, ho conosciuto una ragazza che ha subito uno stupro di gruppo», fa con tristezza Giuseppe, «il suo fidanzato la invitò da qualche parte, ma non c’era solo lui quel giorno ad aspettarla. Dopo questo fatto, lei non si riprese più. Una mattina mi venne a salutare, mi disse che partiva. Non ce la faceva più a restare in paese. Poi andò in stazione e si buttò sotto un treno. Sono stato male un anno! Penso che esistano violenze di tutti i tipi, ma esporsi ad amare qualcuno ed essere tradita in questo modo… La violenza più atroce è abusare dei sentimenti! Ancora oggi quando vado a trovare mia moglie al cimitero, vado anche da lei. Non riesco a dimenticarla. Nessuno di noi ha saputo aiutarla. E questa povera ragazza non ha trovato niente, oltre il buio della sua fragilità».
«Già! Secondo me il vero problema è proprio attraversare il dolore. Devi mandarlo giù o vomitarlo, altrimenti resti per sempre suo prigioniero. Alla fine è proprio come salire una scala lunghissima, che neppure sai dove ti porterà», dice Marco con decisione.
Come oggi al tè
«Sì, per combattere la violenza subita, ci vuole un enorme autocontrollo. Ci vuole una forza incredibile. La cosa sostanziale è conservare la voglia di vivere». Le parole di Maria hanno la solidità di chi parla per esperienza: «È una lotta che non si vince mai, perché non se ne esce mai del tutto in realtà, però si impara a conviverci. Come? Grazie al Cielo io ho fede e poi posso appoggiarmi a chi mi vuol bene… ma più di tutto bisogna essere convinti di voler vivere e per farlo bisogna conoscere il valore della propria vita. Anche se è vero che sembra proprio di essere al buio, bisogna sempre cercare il lato positivo, la luce: sempre! Bisogna credere che ci sia sempre da qualche parte una luce, così soltanto puoi trovarla davvero…».
Improvvisamente anche dentro di me una luce si accende. Di colpo realizzo qualcosa che ho avuto davanti agli occhi per tutto il pomeriggio, ma non avevo notato. Forse la lotta contro la violenza non possiamo vincerla, ma di certo possiamo cominciare a combatterla. Con un po’ di coraggio e un po’ di umiltà, proprio come abbiamo fatto oggi al tè, proprio come può fare chiunque legga queste righe: semplicemente mettendoci nei panni altrui.