Resistere per esistere

Guerra, nonviolenza e altri interrogativi

 Dal blog “Persona e comunità” pubblichiamo alcuni passi del saggio “La resistenza come categoria interpretativa del vivere”. Poche premesse: Franco, da novizio ha lasciato il monastero in cui vive anche dom Luca, è tornato in famiglia; Piero, medico, è suo fratello; Rondine, amico di Piero è salito sui monti con lui, come partigiano.

 di Rossana Rolando
filosofa

a cura di Fabrizio Zaccarini
della Redazione di MC

 Il teatro della Parola e dell'antiparola

La messa dell’uomo disarmato, il romanzo sulla resistenza di don Luisito Bianchi, è il teatro della lotta fra Parola e antiparola.

Dio, biblicamente, è Parola che pervade, penetra, domina, si nasconde in tutto e deve essere ascoltata. «Una parola inesauribile richiede un ascolto incessante; e la parola era dappertutto, penetrava ovunque: nell’avvenimento, con la rapidità folgorante del lampo, nella tessitura dei gesti quotidiani». La Parola è la gratuità, il disinteresse, l’amore fino alla sostituzione; l’antiparola è l’antigratuità, l’interesse, la guerra fino ai campi di sterminio. Il Dio-parola-amore si rivela nell’amore gratuito di Balilla che muore per dom Luca, di dom Luca che muore per Rondine, di Rondine che muore per Piero, dell’abate che muore per tutti. Questi sono i santi della resistenza, i martiri di un mondo nuovo, i testimoni della Parola, in gran parte non credenti.
Per Piero l’unica parola è l’uomo; per Franco la parola è Dio che si nasconde negli avvenimenti. Per Piero Dio non esiste, esiste l’uomo da proteggere e curare; per Franco Dio si è fatto uomo e sta dalla parte degli uomini. C’è tuttavia un punto in cui la distinzione fra Parola e antiparola diventa difficile e drammatica. Ed è quello della violenza. Il dramma della violenza si configura, ne La messa, anzitutto come violenza subita. Una violenza che è tutt’uno col fascismo e che colpisce impunemente ogni dissenso, che coarta sistematicamente ogni libera espressione del pensiero. Di essa porta il segno Toni, che nel ’22 era stato costretto a bere l’olio di ricino e che era rimasto disoccupato per non aver voluto prendere la tessera; o Giuliano cui, per iniziativa della famiglia di Franco e Piero, era stato regalato un asino, perché «con tutte quelle botte che aveva preso dai fascisti, non ce l’avrebbe più fatta a tirare il carretto»; o, infine, Rondine, che non aveva trovato lavoro perché aveva gridato in piazza che la tessera del fascio non l’avrebbe mai presa.

 Disarmato con i partigiani

Come rispondere alla violenza? Chi interpreta il dramma lacerante della violenza è dom Luca, il monaco che decide di partire per la montagna e di non portare armi. Alla richiesta di dom Luca «l’abate chinò la testa e stette un attimo in silenzio. “Pensi che sia un gesto d’amore?” chiese deciso fissando dom Luca. “Voglio sperare, padre abate”. “Un monaco non deve anteporre nulla a Cristo, e quindi all’amore, nemmeno la propria vita”. “Sì, mi pare sia bene, anche se non tutti i fratelli capiranno…”».
Tuttavia, sarà proprio il nodo della violenza o nonviolenza a tormentarlo, a dividerne la coscienza: da una parte il piano dei principi cui rimanere fedele, dall’altra il vortice dei fatti e delle responsabilità. Il principio fondamentale, quello che ha spinto dom Luca ad andare senza armi, è questo: un uomo di pace, un prete, non può portare armi, non può uccidere. Ma il dubbio che il principio serva solo a mantenere la propria buona coscienza si fa strada. O non si intraprende alcuna azione - e per dom Luca che aveva scelto la via della montagna, abbandonando la pace del monastero, intraprendere l’azione aveva significato rispondere alla propria coscienza, a un imperativo interiore - o, una volta intrapresa l’azione, si è comunque responsabili delle uccisioni, delle rappresaglie, anche se non compiute in prima persona.
E se si trattasse di salvare un uomo? Dom Luca è tormentato da questo interrogativo. La nonviolenza assoluta è teorizzabile? Di fronte alla violenza perpetrata cosa significa resistere? È su questo sfondo che si colloca la lucida consapevolezza di una contraddizione insanabile, quella fra pace e giustizia. Tutta la liturgia per dom Luca è un inno alla pace. La vita del monastero, l’essenza del cristianesimo è in questo inno alla pace. Ma il vangelo di dom Luca non è quello del quieto vivere. Il vangelo è parola che scuote da ogni schiavitù, parola che chiede di combattere per la libertà, contro l’oppressione. E allora la pace non è tale senza libertà, senza giustizia.

 Eucaristia sospesa

Per questo risulta colpevole non cercare la libertà per rimanere in pace, per questo il monastero diventa il centro degli aiuti e dei soccorsi ai partigiani, fino al martirio dell’abate. E tuttavia la violenza, la guerra sono l’antitesi della parola di riconciliazione evangelica. Come arrivare alla pace libera e giusta senza percorrere la via della guerra? Come reagire alla violenza senza altra violenza? E il mondo nuovo - di una pace libera e giusta - come potrà nascere dalla violenza? Ecco l’insanabile contraddizione fra quello che è comandato - lottare per la libertà - e quello che è contrario all’evangelo - la violenza. Vi è un’altra via?
Dom Luca arriverà ad uccidere e a sospendere l’eucarestia, segno di riconciliazione impossibile in un tempo di morte e di divisione. Il suo peccato si colloca nel contesto di un più vasto «peccato collettivo», da cui solo la sua morte - la sua vita donata - lo libererà. La violenza rimane antiparola da espiare, da pagare con il prezzo della propria vita. Chi ha vissuto l’avvenimento ha portato e porta il peso degli eventi - che solo il silenzio può conservare intatto dalla banalizzazione e dal fraintendimento. Perciò Piero dice al fratello: «Doveva finire così. Tu accanto ai morti continui la Resistenza che noi abbiamo dimenticato perché non l’abbiamo saputa sopportare. Era un peso troppo greve… Sì, doveva finire così. Non c’è altra spiegazione. Custodiscine la memoria anche per noi».
E così Franco, rientrato in monastero dopo molti anni, - escluso prima dal grande avvenimento, che pure costituisce il perno della sua vita - si sente ora anche escluso dalla vita che continua a scorrere senza fedeltà alla memoria di chi gratuitamente ha versato il suo sangue. Quei morti che lui porta dentro non sono serviti a generare un nuovo mondo. Rondine è stato ormai dimenticato e la società giusta non è stata realizzata.

 Vivere con i morti

Franco perciò chiede l’autorizzazione a un anno di vita eremitica, nella solitudine più totale della montagna - la montagna dei partigiani - per scavare dentro di sé, nel suo sentirsi segnato come un sopravvissuto, «vivente il suo presente nel passato». Solo dal momento in cui comprende che la Parola contenuta nel grande avvenimento va oltre esso, Franco può perdonare a sé stesso di essere un sopravvissuto, come i morti avevano perdonato a sé stessi di essere morti invano, immessi in una Parola più grande, quella promessa nell'alba pasquale di un mondo nuovo. In questo orizzonte la memoria dei morti non rischia più di essere culto di miti, ma diventa il modo «per attualizzare una realtà che non si vede», in un misterioso legame di comunione con coloro che l'hanno resa più vicina, sperando in una nuova umanità e lottando per essa.
Ed è per Franco l’inizio di una nuova resistenza che assume a questo punto il senso di una categoria interpretativa dell’intera esistenza: è la resistenza al potere per la libertà dell’uomo, come continua lotta per dare senso alla vita e alla morte.