Come quando piovono cani

di Pietro Casadio
della Redazione di MC

 Un giovedì mattina di luglio, ore 8.07. Afferro Michela, sedici mesi e un certo disappunto, e la metto sul fasciatoio per il fatidico cambio pannolino: inizia il match. Faccio io la prima mossa: con un rapido scatto allungo la mano per aprire il body della notte; Michela risponde con un calcio ben assestato all’ultima costola. Allora sfodero “Beppe”, un dalmata pupazzo dalle proporzioni ambigue, con l’intento di distrarla. Lei gli mastica la testa per 25/30 secondi, poi si accorge della fregatura e Beppe vola per il bagno finendo dritto dritto nella tazza del water. Provo a intonare qualche canzoncina, ma con due urli Michela riesce a farmi perdere la nota, l’udito e pure la pazienza, beato chi ne ha a volontà.
Dopo soli diciotto minuti di battaglia, io e Michi siamo in sella a una bici (io pedalo, lei scampanella) e viaggiamo velocemente verso il centro città; missione principale: passare del tempo. Appena entro nella zona pedonale, mi imbatto in una signora sulla quarantina con un cagnetto al guinzaglio. Michi, come sempre, lo indica eccitata e si prodiga in una serie di “bau” impeccabili. Qualche metro più in là, altra signora, altro cagnetto, altro “bau”. Dietro l’angolo c’è invece un uomo che porta a spasso un gran bel rottweiler. Poi la ragazza col bassotto, la coppietta con il pastore maremmano e il signore con il lupo cecoslovacco. Ogni cane, ci mancherebbe, prende il suo “bau” da Michela, mentre io mi chiedo se non dovrei insegnarle il linguaggio canino, piuttosto che l’italiano, visto che nelle nostre scorribande incontriamo più spesso “migliori amici dell’uomo” che bambini. Sembrerebbe davvero che la gente preferisca la fidata e non troppo ingombrante compagnia di un cane, all’invasiva presenza di un figlio che dà crucci e daffare per almeno vent’anni.
Pedalando verso casa, mentre contemplo una padella di pizzetta sulla maglia, penso che la fotografia del centro città sia sintomatica di una società che non avrà perso la sua fertilità, ma di certo ha smarrito una buona dose di fecondità. Un po’ persi nell’ansia di controllare ogni cosa della nostra vita, dall’agenda settimanale al numero dei passi che facciamo andando a camminare, fatichiamo ad aprire la porta all’incognita impazzita per eccellenza: un figlio. E dico “aprire la porta” perché credo che sia proprio una questione di ospitalità. Il figlio è un ospite scomodo che non puoi cacciare di casa quando le cose vanno male, un ospite che richiede attenzioni, massima dedizione, tempo, energia, fatica, pensieri. Poco sonno.
«Quando ti nasce un figlio non sai mai chi ti metti in casa», diceva Achille Campanile. Ricordo il misto di paura, eccitazione e curiosità che mi pervadevano mentre assistevo al parto di mia moglie e mi preparavo a conoscere mia figlia. E anche ora, quando guardo Michela, mi chiedo chi e come sarà da grande. Ma è una domanda che cade nel vuoto, perché un figlio è un libro di cui non puoi proprio conoscere il finale. E questo mistero è assai prezioso, se accolto, perché ci insegna ad amare di un amore che libera e non costringe, che apre strade senza forzare una via, che educa ma non pretende di controllare ogni cosa. Durante le frequenti trasformazioni di Michela da dr. Jekyll dolce e buona a mr. Hide indomita e urlatrice, mi chiedo spesso quanta parte di colpa ho in quel suo atteggiamento. Sicuramente parecchia, ma mi consolo pensando che se lei sta imparando a vivere, io sto imparando ad amare. E nell’apprendimento gli errori possono essere i mattoncini su cui costruire i castelli più robusti.
Ospitare, sempre e comunque, è l’occasione di aprirsi al cambiamento: essere disposti a mettere in gioco la propria identità, impastarla con quella dell’ospite, vedere ciò che ne viene fuori. Avere un figlio non fa eccezione, anzi, conferma la regola più di ogni altra cosa. Sono passati poco più di sedici mesi da quando Michela è nata, ma questo mi appare chiarissimo: non posso pretendere di rimanere uguale a me stesso, come se avessi aggiunto alla mia vita solo un (grosso) impegno in agenda. Perché lei ogni giorno rivela e smaschera ogni mia debolezza, ogni mia fragilità. Devo, voglio, accettare il cambiamento, accettare di farmi plasmare come un vaso d’argilla, anche quando ferisce e logora, anche quando qualcosa si rompe. «Come l'argilla è nelle mani del vasaio, così voi siete nelle mie mani», dice il Signore a Geremia. Essere genitori, dunque, non significa tanto plasmare, ma sentirsi modellati fino nell’intimo, giorno dopo giorno. Accogliere l’occasione del cambiamento, l’occasione di amare.
Arrivati finalmente a casa, dopo la lunga mattinata in centro, Michela mi guarda con i suoi occhioni profondi e, con l’aria di chi sa esattamente quello che vuole, prorompe in un “Pappa!”. Butto un occhio all’orologio e faccio un tragico bilancio della situazione: è mezzogiorno passato, bisogna cambiare il pannolino, intrattenere l’affamata, preparare da zero il pranzo e apparecchiare la tavola. Eccola, l’occasione! Andiamo, pronti a farsi plasmare.