Image 015La verità sempre oltre

Le parabole evocano il mistero per cogliere il qualcosa in più

di Massimo Grilli
docente di teologia biblica all’Università Gregoriana

Nel discorso delle parabole - così come Matteo lo propone nel cap. 13 del suo vangelo - ci sono due passaggi estremamente significativi per comprendere il linguaggio parabolico di Gesù.

Nel primo, i discepoli chiedono al maestro perché, nel parlare con le folle, si esprima in parabole. Ed ecco la risposta: «A voi è dato di conoscere i misteri del Regno dei cieli, a loro, invece, non è dato, poiché a chi ha sarà dato, e in sovrabbondanza, ma a chi non ha, sarà tolto anche quello che ha. Per questo parlo loro in parabole: perché guardando non vedono e udendo non odono né comprendono» (Mt 13,11-13). Il secondo passaggio si trova pochi versetti dopo, e questa volta si tratta di un commento del narratore, che vede nel linguaggio parabolico di Gesù il compimento della Scrittura, e precisamente del Sal 78, 2 che viene citato espressamente: «tutte queste cose diceva Gesù in parabole alle folle e all’infuori della parabola non parlava loro di nulla, perché si adempisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta: “Aprirò la mia bocca in parabole, proferirò le cose occulte dalla fondazione (del mondo)”» (Mt 13,34-35).

A una lettura poco attenta, questi due testi sembrano contraddittori, perché nel primo il linguaggio parabolico sembrerebbe motivato dall’intenzione di occultare il mistero di Dio, riservato a pochi eletti (ai discepoli), mentre nell’altro testo lo stesso linguaggio sembrerebbe il più adatto per parlare del mistero di Dio, tant’è vero che esso rispecchia la sua volontà espressa nella Scrittura. In realtà, un lettore attento si rende subito conto che Matteo parla sì di un paradossale mistero che alcuni comprendono e altri non comprendono, ma questo non è attribuito a un destino prestabilito o a un’intenzionalità discriminatoria del linguaggio parabolico. Le finalità sono altre e proverò a esprimerle mediante due considerazioni, correlate tra di loro: una concerne il rapporto tra linguaggio parabolico e contenuto del messaggio, l’altra il rapporto tra linguaggio parabolico e gli ascoltatori/lettori.

Image 021La parabola e i misteri del Regno

Il linguaggio misterioso delle parabole ha a che fare anzitutto con il Regno, o meglio con i misteri del Regno (Mt 13,11). “Mistero” non va inteso qui nel senso di verità occulta, esoterica, e neppure nel senso di un Dio lontano, irraggiungibile alla sola intelligenza umana. Con un linguaggio preso in prestito da Bonhoeffer si potrebbe invece dire che i pensieri di Dio sono misteriosi perché «non sono common sense». Dio, come i fatti decisivi della vita, «stanno nell’oscurità della terra e tutto quanto vive alla luce proviene dall’oscurità e dal mistero del grembo materno…». Dire che Dio è mistero è lo stesso che dire “Dio è santo”. La santità nella Bibbia non è legata essenzialmente a virtù morali esercitate in massimo grado, ma all’alterità, all’indicibilità. Dire che Dio è santo, significa, anzitutto, affermare che Dio è “altro”, ineffabile. La tentazione dell’uomo è di voler catturare l’“altro”, negando la distanza, inglobarlo misconoscendo che l’altro esiste prima di ogni mia iniziativa e di ogni mio potere. Questo non è possibile con Dio e non è possibile con l’uomo. La comunicazione autentica, e soprattutto la comunicazione suprema, quella d’amore, ha bisogno della distanza. Ancora Bonhoeffer ha scritto: «Si ha la massima profondità di ogni mistero quando due persone giungono ad essere così vicine fra di loro, da amarsi reciprocamente… Eppure, quanto più si amano e quanto più sanno l’uno dell’altro nell’amore, tanto più si rendono conto del mistero della loro vita» (Gli Scritti).

Se questo è Dio, allora bisogna dire che il linguaggio parabolico è il più adatto a parlare di Lui. La parabola, infatti, si compone di immagini, che non obbligano subito il lettore all’assenso, ma gli indicano la strada, rinviandolo a una verità che è sempre “oltre”. Il linguaggio parabolico si addice meglio all’alterità del Regno e alla sua misteriosa presenza tra gli uomini, perché la parabola dice e non dice; vela la realtà, non per occultarla, ma per farne percepire la profondità inaccessibile a chi cerca solo un contatto fugace e parassitario. In effetti, comprende le parabole non l’uomo segnato dall’accelerazione e dalla frammentazione, l’uomo del “tutto e subito”, ma l’uomo dotato di uno sguardo attento e penetrante, l’uomo paziente, che sa andare oltre la coltre che riveste gli eventi. È proprio questo che vuol mettere in evidenza il testo di Mt 13,11-13 quando afferma che il linguaggio parabolico diventa criptico solo se l’uomo non è disposto a fare il passaggio, perché non vuol vedere, non vuole ascoltare. Per chi non vede, non ode né comprende, le parabole divengono la forma che cela il mistero del Regno (vv. 11.13). Isaia 6,9-10, che Matteo cita nei vv. 14-15, trova proprio qui la sua motivazione di fondo: chi ascolta non comprende, chi guarda non vede, perché ha il cuore indurito. La parabola invece è per chi accetta la sfida di cercare il seme nascosto sotto la coltre di neve, la speranza che fiorisce tra i crepacci della storia, la vita che germoglia nel grembo oscuro della terra.

La parabola e gli ascoltatori/lettori

C’è un secondo aspetto del linguaggio parabolico, che concerne maggiormente l’ermeneutica. Lo si percepisce chiaramente se facciamo memoria della parabola che il profeta Natan racconta a Davide nel cap. 12 del secondo libro di Samuele, dopo che Davide ha fatto sua la moglie di Uria l’Ittita. Dopo la consumazione dell’adulterio, il profeta si presenta a Davide per raccontargli una storia, o meglio una parabola: riguarda due uomini, uno ricco di bestiame e uno povero che possedeva una sola pecorella. Il ricco, in modo arbitrario e dispotico, improvvisamente decide di impossessarsi anche dell’unica pecorella del povero. Di fronte a un sopruso tanto evidente, Davide, indignato, si lascia sfuggire una dichiarazione di condanna per quell’arrogante riccone: è «reo di morte!». Allora, il profeta Natan, rivolgendosi a Davide, l’apostrofa: «Tu sei quell’uomo!».

Il momento cruciale di questo racconto è nel passaggio che avviene da una storia “fittizia” (quella del sopruso dell’uomo ricco sul poveretto che possedeva una sola pecorella) all’ordine reale, incarnato in: «Tu sei quell’uomo!». La parabola ha questo potere, di trasferire gli ascoltatori/lettori in un mondo fittizio, immergendoli in una vicenda che “sembra” aliena alla situazione reale in cui si è coinvolti. Questo trasferimento in un mondo “fittizio” è però provvisorio, ed è soprattutto strategico: l’ascoltatore/lettore è più propenso a dare un giudizio vero sul “fittizio”, che non lo riguarda. È a questo punto, però, che l’“effetto-parabola” sprigiona la sua efficacia: “tu che ascolti/leggi, tu sei parte in causa! La cosa ti riguarda!”. In fondo, la parabola è un mezzo per rimuovere la maschera che ogni uomo/donna indossa in determinati momenti, in cui si preferirebbe astenersi da una decisione cruciale. La parabola spoglia chi legge/ascolta delle difese di cui si è rivestito e lo obbliga a sentirsi coinvolto e a reagire. La parabola ci toglie il potere di disporre di tutto e, attraverso un percorso veritativo, ci proietta verso un futuro di autenticità e di responsabilità: un futuro dove l’incontro con l’“Altro” è l’unico progetto degno di essere vissuto.

Dell’Autore segnaliamo:

Scriba dell’Antico e del Nuovo. Il Vangelo di Matteo. Atti del Convegno (Camaldoli, 29 giugno-3 luglio 2009)

EDB, Bologna 2011, pp. 128