Dalla parte del drago

Imparare a combattere quel senso di colpa infondato tipicamente femminile

 di Roberta Russo
editor e traduttrice

 Si dice che il senso di colpa faccia scattare il bisogno di lavarsi.

Quest’azione è denominata “Effetto Macbeth”, dalla Lady assassina del dramma di Shakespeare che, sopraffatta dai sensi di colpa, si sfrega compulsivamente le mani per ripulire macchie di sangue che sono solo nella sua mente.
La scrittrice Erica Jong scrisse: «Le donne sono le peggiori nemiche di se stesse. E i sensi di colpa sono il principale strumento della tortura che si autoinfliggono» (Paura di volare, Bompiani 1973).
A chi non è mai capitato di sentirsi in colpa? Talvolta a ragione, altre volte senza motivo, senza aver fatto realmente nulla di male. Il senso di colpa, in psicologia, non è ritenuto sempre negativo: indica la presenza di un dibattito interiore su cui vale la pena riflettere e aiuta a mantenere relazioni rispettose verso gli altri. Diventa molto pericoloso, invece, quando si trasforma in autolesionismo.
Studiosi della mente, psichiatri e psicologi descrivono il senso di colpa come quel sentimento spiacevole che deriva dalla convinzione, spesso ingiustificata, di aver danneggiato qualcuno; è correlato all’altruismo e all’empatia per le sofferenze altrui, ma anche, a livello profondo, alla paura di una punizione da parte delle “figure” più significative della nostra esistenza: padre, madre, compagno, marito, figlio, Dio, Stato.

 Un’afflizione femminile

I sensi di colpa affliggono e rovinano la vita di molte persone fragili e, come se non bastasse, sono spesso ingiustificati. Pare che a esserne più afflitte siano le donne, che rispetto ai maschi ne soffrono con maggiore frequenza e intensità. Anche le adolescenti e le giovani sono più portate a “sentirsi in difetto” dei loro coetanei di sesso maschile. Questa propensione trova radici causali soprattutto nell’educazione cui sono soggette ancora oggi le generazioni femminili. Un’educazione che, all’apparenza, ha perduto molti dei tabù che relegavano le donne a ruoli servili e di accudimento, ma che, nei fatti, è ancora radicata in molte famiglie.
Ecco quindi che, volenti o nolenti, molte ragazze, fidanzate, spose, mamme e nonne si ritrovano a dover fare i conti con la propria coscienza alimentata, fin da piccole, con il cibo della colpa. Sono rimorsi, rimpianti, dispiaceri - nutriti nei confronti di figli, mariti, parenti o genitori anziani, ma anche colleghi di lavoro, amici, conoscenti - che affiorano così, senza che consciamente lo si voglia, ma che hanno il potere di avvelenare la vita, soprattutto quando sono ingiustificati.
Se frutto di convinzioni errate, il senso di colpa può facilmente degenerare in scontentezza, frustrazione, precipitando nelle patologie della depressione, dell’astenia e dei disturbi alimentari.
Smettere di sentirsi in colpa per ogni singola questione o difficoltà della vita altrui non significa diventare persone ciniche, significa piuttosto esercitare un lucido e sano senso di responsabilità quando davvero necessario.

 Tra il conscio e l’inconscio

La psicoanalisi individua due tipologie di senso di colpa: conscio e inconscio.

Il senso di colpa conscio si struttura nel corso dell’età evolutiva, prima in maniera passiva, assecondando le regole dei genitori, timore di subire una punizione o di perdere il loro affetto. In seguito, accrescendosi la capacità di concepire i sentimenti dell’altro in maniera distinta dalla propria, la persona inizia a percepire dispiacere nel far male agli altri, o anche a se stessa, maturando il sentimento di responsabilità e di riparazione al danno causato. Il senso di colpa, cioè, quando è conscio e motivato da azioni ritenute malvagie, realmente compiute, è riferibile a un meccanismo della coscienza evoluta che, se non è deformato, ci avverte di un disagio per aver causato male al prossimo o alla collettività e ci stimola a porre rimedio alle conseguenze dannose dei nostri atti.
Il senso di colpa inconscio è invece determinato da motivazioni irrazionali, pregiudica la propria autostima, andando talvolta a generare patologie psichiche gravi.
Anzitutto l’ansia cronica. Si verifica quando è presente un costante sentimento di inferiorità, che fa percepire la persona troppo debole e piccola dinanzi alle sfide della vita o alle persone che la circondano.
Un’altra patologia è l’ipocondria, quando il sentirsi colpevoli si manifesta con la paura di ricevere una malattia come “meritata” punizione dall’esterno.
E infine la depressione, che nasce quando il senso di colpa diviene totalizzante fino a inficiare la consapevolezza di “meritarsi di vivere”: la depressione è quasi sempre la purulenza di una ferita profonda, che va individuata e curata.

 Attenzione alla patologia

Il senso di colpa può diventare patologico in varie tipologie di personalità, tra cui la soggettività “onnipotente”, ossia colei che ha difficoltà a delegare ad altri alcune responsabilità e che si carica di tutto il peso delle decisioni proprie e altrui, sentendosi poi colpevole qualora qualcuna delle persone di cui si è fatta carico mostri un senso di insofferenza. È la donna incapace di dire dei “no” o di porre limiti alle esigenze degli altri, proprio perché spinta dalla convinzione malata che struttura la propria immagine: «Cosa penserà l’altro di me se dovessi negargli qualcosa?».
Parallelamente ci sono anche delle personalità che sfruttano il senso di colpa altrui come mezzo di manipolazione. C’è la personalità vittimistica, che ponendosi in una posizione di eterna sofferenza e disagio, cerca di indurre l’altro, soprattutto la donna, a sentirsi in colpa per ottenere aiuto. C’è la personalità borderline, che manipola l’altro per impedirne la libertà personale e l’espressione di sé. C’è infine la personalità narcisistica, che ha l’esigenza di far sentire l’altro costantemente inadeguato per confermare la propria immagine di sé grandiosa.
Il senso di colpa patologico ha un effetto opposto al senso di colpa sano: ci blocca, ci impedisce di pensare e di metterci in discussione, poiché a priori riteniamo di aver sbagliato tutto nella vita.
Piuttosto che restare schiacciate come il Drago da San Michele, talvolta bisognerebbe accogliere il proprio lato percepito come “malvagio”, ossia quella parte di noi che cerca di tutelare noi stesse, quella parte sanamente egoista che ci permette di respirare e di sentirci “a posto” con gli altri, nella ritrovata consapevolezza che le persone che realmente ci amano non potranno che essere felici nel vederci crescere e sorridere, libere da ogni strascico di colpa inadeguata.

 Dell’Autrice segnaliamo:
L’arte di camminare. Per fare ordine nella propria vita
Edizioni Terra Santa, Milano 2018