Ospitalità eucaristica

Condividere la mensa potrebbe aiutare a condividere il credo

 di Andrea Grillo
docente di Teologia dei sacramenti e Filosofia della Religione presso il Pontificio Ateneo S. Anselmo 

 Anche in liturgia, nel cuore della intimità ecclesiale, rischiamo sempre di pensare, e di sentirci dire, come nel film Totò a colori: «Si ricordi che lei qui è un ospite». Come se ci fosse qualcuno che potesse vantare un «diritto originario di cittadinanza» nella eucaristia.

Ma, al di là delle battute, la terminologia della “ospitalità eucaristica” pare giustificata da un fatto molto positivo, ossia dal superamento delle “scomuniche” tra Chiese, che prende la figura della “ospitalità” del “fratello separato” all’interno di una celebrazione cattolica. Il fenomeno è un cammino inevitabilmente lento e complesso, che deve superare storiche ostilità e incomprensioni e che fatica, ad esempio, a concepire la reciprocità: ossia noi possiamo ospitare, ma non possiamo essere ospitati.
Ovviamente la terminologia è il frutto di tanti scontri, di tante incomprensioni, di tante rotture. Il termine, allo stesso tempo, afferma e nega: afferma un rapporto di “comunanza di mensa” in assenza di “comunione ecclesiale”. Vorrei brevemente illustrare la questione sotto tre punti di vista.

 Aspetto antropologico

I cattolici si sono abituati a ragionare così: finché non vi è comunione ecclesiale, non può esservi comunione sacramentale. Sembra una posizione di buon senso, che segue una logica elementare: se non c’è accordo sulle parole, sulle verità, sui poteri, sulle simboliche, come si può fare la comunione allo stesso pane e allo stesso calice? Questo vale per la “dottrina teologica” classica. Ma la antropologia, che conosce bene anche questa logica – infatti non facciamo così solo in Chiesa, ma anche con gli amici o in famiglia - ne conosce anche un’altra, molto diversa e per certi versi capovolta. Sappiamo bene, infatti, che è proprio l’atto del “pasto comune” a rendere possibile una comunione di vita. Dice un antico adagio: communitas victus, communitas vitae, comunione di mensa è comunione di vita. In altri termini, le difficoltà dottrinali e disciplinari non sono soltanto un “ostacolo” alla comunione fraterna. Possono essere anche risolte sulla base di una “esperienza di pasto comune”, che anticipa profeticamente e accompagna escatologicamente il divenire dei soggetti. In uno dei suoi primi discorsi pubblici da Presidente, il presidente Barack Obama raccontò di quel gesuita, membro della commissione americana che negli anni 50 doveva superare l’apartheid e creare “comunione” tra bianchi e neri nella società USA. Quel prete, con acume, scoprì che i membri bianchi e neri della commissione, sotto le contrapposizioni apparentemente inconciliabili, erano accomunati da una “passione comune”: la pesca. Una uscita al lago, con una esperienza di pesca comune, fu l’inizio dell’accordo tra loro. Un “atto comune” ha preceduto il comune riconoscimento della verità.

 Aspetto ecclesiologico

La questione oggi ha acquisito un’ulteriore coloritura, da quando i Vescovi tedeschi hanno lanciato l’idea di allargare la “ospitalità eucaristica” per le “coppie miste”, formate da un marito protestante e una moglie cattolica o viceversa, il cui destino sembra poter condividere tutta la vita, in tutti i suoi aspetti, meno che l’eucaristia/santa cena. I vescovi tedeschi, a maggioranza, hanno visto che qui la Chiesa entra in una sorta di contraddizione. Da un lato nega la comunione, perché le Chiese di appartenenza non sono in comunione. D’altra parte riconosce che la “comunione nuziale” è, per certi versi, più avanzata e più esplicita della stessa comunione eucaristica. Proprio qui, a me pare, la “ospitalità eucaristica” dovrebbe essere intesa non come una “benevola concessione” che le singole Chiese possono fare a “membri esterni” di partecipare alla pienezza dei propri riti, bensì come “profezia ecclesiale” che riconosce, in coppie miste, la presenza di una “chiesa unita e capace di comunione”, anticipata dalla vita domestica, che sta in anticipo rispetto alla coscienza istituzionale. Ciò che le Chiese non riescono a riconoscere come “comunione”, un uomo e una donna possono viverlo appieno, nonostante la loro appartenenza ecclesiale differente. Qui, forse, la relazione tra il sacramento dell’eucaristia e il sacramento del matrimonio deve essere pensata in modo meno rigido e unilaterale e la “differenza ecclesiale” può essere compresa non come difficoltà e ostacolo, ma come ricchezza e stimolo.

 Aspetto cultuale/culturale

La ospitalità, infine, non è un “caso estremo” della eucaristia, ma il “caso serio” e “ordinario” della sua verità. Ci siamo abituati a pensare alla “comunione” come al rapporto con pane e vino “convertiti” in corpo e sangue. Ma questo, per tutta la tradizione teologica, è solo l’“effetto intermedio” della eucaristia. Il dono di grazia è l’unità della Chiesa, la comunione delle “pietre vive”. Per questo, già da un secolo, fin da Pio X, si è riscoperta la natura non solo di “premio”, ma di “farmaco” della comunione eucaristica. La eucaristia non è solo “culmine” di una identità già acquisita, ma anche “fonte” di una identità da costruire, da strutturare, che trova alimento in questa “pratica di comunione sacramentale” per pellegrini in cerca della pienezza.
Questa consapevolezza teologica deve diventare, allo stesso tempo, modo di celebrare e modo di vivere l’eucaristia.
Circa il modo di celebrare, è evidente che la “ospitalità eucaristica” è la “forma comune” della esperienza cristiana e cattolica. Tutti, e sottolineo tutti, sono ospiti. Chi presiede, chi proclama, chi canta, chi serve, chi risponde. Tutti sono ospiti perché tutti compiono “una sola azione” il cui titolare non è altro che Cristo e la sua Chiesa, di cui nessuno è esclusivo rappresentante. Questa “articolazione ministeriale” è finalizzata a quel “fine” che S. Agostino definiva in modo così sorprendente: «Estote quod videtis, accipite quod estis»: siate quel che vedete, ricevete quel che siete. Corpo di Cristo non è solo un “ricevere”, ma un “essere”. La Chiesa corpo di Cristo è il fine della eucaristia celebrata.
Ma se cambia il modo di celebrare, cambia anche il modo di vivere. Essere Chiesa non è anzitutto “gelosa custodia di un deposito”, su cui fare selezione. Ma è vita “in uscita” e “in periferia”. Queste parole, che di solito attribuiamo alla originalità di papa Francesco, sono in realtà scritte nella tradizione eucaristica, che ci chiede di diventare soggetti accoglienti e ospitali. Quello che ricevi nel sacramento devi farlo diventare “tuo stile di vita”: una cultura della ospitalità e della accoglienza non è il caso limite di una coscienza ecclesiale, ma la norma piantata al centro della celebrazione eucaristica. Che riconcilia i diversi e abbatte i muri. A questo diciamo “amen” e su questo decidiamo la nostra sequela di Cristo.