Dopo un velocissimo ripasso delle regole comunicative per gustare un “buon tè alle tre”, Maura lancia l’argomento del pomeriggio con energia. «Oggi affrontiamo l’ultimo tema previsto per quest’anno dalla rivista dei nostri amici cappuccini. La parola da far risuonare nelle nostre vite è “ospitalità”. Dunque, cosa vi viene in mente se pronuncio la parola “ospite”? Chi di voi ha vissuto l’esperienza di essere ospite? Chi invece ha ospitato qualcun altro? Voi trovate le parole ed io intanto le segno sul cartellone, poi apriamo lo scambio».

a cura della Caritas Diocesana di Bologna

 Un miracolo umano

L’ospitalità che guarisce l’uno e l’altro

IL TÈ DELLE BUONE NOTIZIE 

me viene in me

Quando Maura si gira verso il grande foglio bianco appeso al muro, esplode un po’ di confusione generale. Forse non tutti hanno capito la consegna, qualcuno ha bisogno di pensarci su.

Ma Daniele invece è prontissimo: le sue parole balzano fuori con potenza, spinte di scatto dalla catapulta del cuore: «A me viene in mente Massimo!». Massimo era un amico di Daniele. È morto lo scorso anno, una sera d’inverno, annegando nella canaletta di scolo mentre da solo - forse annebbiato dall’alcol - camminava sul ciglio della strada e cercava di rientrare nella sua casa provvisoria, il container dove Daniele vive e dove in quel periodo lo ospitava. «Mi viene in mente Massimo», prosegue Daniele, «e mi viene anche in mente che quando stavo in montagna, non si usava mai dire “ho un ospite” oppure “tu sei mio ospite” perché si diceva “questa è una casa aperta”… non si davano etichette, ma certo le regole di convivenza si rispettavano ugualmente…».
«A me insieme ad ospitalità viene in mente la parola “accoglienza”», fa Maurizio, «per me è l’accoglienza che mi dà la mensa alla sera e mi fa piacere quando mi dicono che siamo proprio noi ospiti a rendere felici i volontari che ci servono il pasto. L’accoglienza bella è sempre reciproca! Poi mi son venuti in mente i greci antichi. Per loro l’ospitalità era sacra. Non sapevano chi avrebbero ospitato, ma gli offrivano il meglio di ciò che avevano. Questa sì è una dimostrazione di immensa civiltà! Ecco “civiltà” è un’altra parola da sistemare vicino a “ospitalità”». 

 
I posti brutti

«Il dormitorio per me è un posto proprio brutto», interviene Adelia e la sua voce è spigolosa di rabbia, «Io però non ho potuto rifiutare questa ospitalità, non avevo alternative e così ho dovuto accettare di vivere lì anche se non mi piaceva affatto. Mi son ritrovata a dividere la stanza con una donna che parlava male di me alle mie spalle. Dormiva con me in stanza ogni notte e fuori da lì diceva di me cose orrende! False!», il viso di Adelia s’infuoca, lacrime diritte e lucenti come spade affilate, le percorrono il volto, «Mi ha ferita quella donna! Che brutta la gelosia, l’invidia e la cattiveria! Ecco, di fianco alla parola ospitalità possiamo anche scriverci “umiliazione”!».
Come se un’improvvisa folata di vento la spingesse d’imperio, Maria Rosaria attraversa la stanza e corre ad abbracciare Adelia dall’altra parte del cerchio. Con tenerezza impacciata e dolcissima, le accarezza il capo e le spalle. La compassione istintiva di Maria Rosaria mi sorprende e mi commuove: «Adelia! Ma no, non fare così! Ti prego, non piangere che poi… vedi? piango pur’io. Non piangere più, dai per favore. Le cattiverie, credi a me, sono come i boomerang! Ad un certo punto tornano indietro e colpiscono quelli che le dicono! Ma ti capisco sai? A me hanno detto tante di quelle cose brutte dietro, ma io non ascolto più: soltanto io conosco davvero la mia vita, so bene se mentono e quindi posso lasciarmi scivolare tutto addosso».
«Però, è proprio così…», dice Claudio tristemente, «tutti noi che facciamo questa vita, siamo stati umiliati da altri. Purtroppo è normale così. Ma non è tanto quello che dicono, è la vigliaccheria di ferirti alle spalle, che fa soffrire davvero…». «Già, e quante volte anche chi ti ospita e ti aiuta lo fa in realtà per mantenerti “povero”, perché tu possa restare per sempre un assistito?», dice Daniele, abbandonando nel cerchio questo interrogativo pesantissimo.
Mi guardo intorno e leggo sui volti di tutti lo stesso smarrimento. È lo sgomento di chi prova un dolore che non comprende, che non si aspetta e non merita. Abbasso la fronte. Provo vergogna. Quante volte uso con vigliaccheria le parole? Quante volte, anche nei nostri ambienti, ci serviamo dei poveri invece di servirli, sottraendo loro dignità, soltanto per sentirci più buoni, più generosi e più ospitali?

 Questo pomeriggio

«Voi lo sapete: io credo in Dio», dice improvvisamente Maurizio con allegria. Alzo gli occhi e lo osservo: nel suo sorriso c’è la gioia di chi ha una risposta vera: «Be’, sembra che duemila anni fa sia venuto giù addirittura il Figlio del Padrone e Lui per primo non ha trovato una grande ospitalità quaggiù, fra noi. Lui ha ben capito chi siamo e come siamo fatti, eppure… non meravigliamoci quindi del male che è nel mondo, piuttosto abituiamoci ad essere grati per il bene che ci fanno comunque. Piuttosto che arrabbiarci per il rifiuto, stupiamoci che ancora esistono persone che ci ospitano e ci aiutano davvero».
«Sì, in effetti noi siamo vittime in questa società», sottolinea Carlos mentre maneggia velocemente l’involucro di un cioccolatino, «ma siamo un po’ anche vittimisti. Basta dire che ci sentiamo sempre degli “ospiti”. Invece è importante sentirsi liberi sia quando si ospita che quando si è ospitati. Perché io credo che chi è ospitato può sempre fare qualcosa per chi lo ospita. Vedi? Vengo qui a bere il tè e con la carta di questo cioccolatino, che ho appena gustato, faccio un bel fiore e te lo dono, Maura». Carlos si alza e offre a Maura il suo regalo con eleganza leggera e birichina. Poi torna a sedersi soddisfatto e riprende: «È vero che lo Stato oggi ci offre un’ospitalità mozzata. Il dormitorio è solo uno spazio, ma non c’è alcuna attenzione umana per noi. Non c’è vera ospitalità. Le istituzioni ti danno, ma c’è sempre un mercanteggiare, si dimentica la solidarietà. Nessuno ti chiede: “Ma tu di che hai bisogno davvero? Cosa ti manca?”. Perché io sento la mancanza della reciprocità alla pari, che invece è necessaria. Per noi di umano c’è questo pomeriggio, in cui nessuno ci guadagna, ma tutti ci facciamo reciproco dono di noi stessi». 

Un posto nelle vostre vite

«Sento vere anche per me le parole di Carlos», dice Maura, «io l’ospitalità l’ho sperimentata proprio con voi. Qui dentro. Quest’anno. Voi mi avete davvero ospitata». La gente si fa attenta e il cerchio si stringe attorno alla sua voce che cattura tutti: «La vostra ospitalità è stata come un’energia di calore, quando energia non ne avevo proprio più. Sono felice di dirvi che gli ultimi esami sono andati bene. Pare davvero che abbiamo sconfitto quest’ospite indesiderato che è la malattia e io so che vi devo molto. Grazie a voi, ho sperimentato l’ospitalità del cuore: voi mi avete fatto sentire importante! Era importante per voi che io ci fossi! Questo sentire mi ha fatto tanto bene. Certo voi non mi avete dato un posto materiale nelle vostre case, ma mi avete dato un posto reale nelle vostre vite, nel vostro affetto. Abbiamo condiviso un’umanità che supera i ruoli e, anche se le differenze restano, sappiamo che nella reciproca ospitalità non c’è mai umiliazione!».
Da dentro mi sale un maremoto indescrivibile di gratitudine e commozione. Mentre combatto fra pianto e riso, con il cuore in tumulto, comincio a prendere le misure con ciò che è accaduto realmente in questi mesi e finalmente comprendo: l’ospitalità fa miracoli.